La leadership senza partito

Il luogo, il Senato della Repubblica, e l’occasione di questo convegno in cui mi vedo lietamente coinvolto, sono propizi per una riflessione non schiacciata sul presente. Ne approfitterò per cercare di dare un minimo di prospettiva storica, di lungo periodo, per poi, rapidamente, ricondurre il discorso sul presente. Così, forse, capiamo meglio il problema della leadership oggi e, soprattutto, il problema della sua debolezza. Perché questo è il tema centrale, contrariamente a una certa ideologia dominante, soprattutto in Italia e a sinistra, dove si sente ancora parlare di deriva autoritaria. Al contrario, il problema che abbiamo – non solo nel nostro Paese – riguarda l’indebolimento della leadership. Per una ragione storica, un vero e proprio spartiacque. La leadership, oggi, è sempre più priva di quel supporto, collante, offerto dal corpo istituzionale del partito. E, al tempo stesso, è sempre più dipendente dalla fenomenologia individualistica che è lo «Zeitgeist» del nuovo secolo.

Sono molto d’accordo con quello che diceva Luciano Violante: «Siamo in un cambiamento d’epoca». Proverei a leggere questo cambiamento d’epoca con due categorie fondamentali dell’agire umano – categorie sociologiche, politologiche e anche, evidentemente, categorie teologiche: l’individuo e il gruppo. Noi stiamo passando, per dirla in maniera tranchant, da un millennio corporativo, in cui c’è stata l’egemonia corporativa – preferisco il termine inglese corporate, perché dà meglio il senso e la dimensione istituzionale del fenomeno -, a un nuovo millennio o, per lo meno, un nuovo inizio all’insegna dell’individualismo. Lo chiamerei individualismo mediatico, proprio nell’accezione di quell’eccesso di mezzi di cui   si è parlato. Ma anche di quella nuova dimensione mediatica che ha ormai colonizzato ogni mondo vitale.

Ricordo, a questo proposito, un aneddoto che però spiega con semplicità tante cose. Mi è capitato di vedere monsignor Fisichella in televisione, poco dopo l’abdicazione di Ratzinger. A un certo punto, con quel linguaggio semplice che è ormai quasi un monopolio della Chiesa, ha detto: «Ma noi non abbiamo capito la comunicazione. Noi abbiamo pensato che fosse una cosa importante, un fenomeno culturale. In realtà la comunicazione è il nostro tempo». Qualche giorno dopo, è stato eletto papa Francesco. Ecco, noi siamo proprio in una nuova era. E di questa nuova era sappiamo poco, o niente. Ci troviamo nella condizione della sociologia dell’inizio del XIX secolo, di fronte a quella stessa domanda fondamentale, la Probleme Stellung di cui ci ha parlato Luhmann: come è possibile l’ordine sociale? Come è possibile, si chiedevano i primissimi sociologi, che si tenga tutto mentre si sono disgregate le comunità, le famiglie, i rapporti gerarchici su cui si reggeva il mondo pre-industriale? Invece del caos, le cose funzionano, hanno trovato nuovi equilibri. Nasce così la sociologia, con le sue nuove categorie interpretative: i ruoli, le classi, la divisione del lavoro, ecc. Esse spiegano perché non cadeva tutto a pezzi, e, invece, si creava un nuovo ordine. Oggi noi siamo in una condizione analoga. Non abbiamo le nuove categorie necessarie per interpretare l’universo in espansione dell’individualismo mediatico, la galassia in espansione della rete. Una galassia che, per colmo di ironia, abbiamo battezzato «social» mentre è esattamente l’opposto della società che ci stiamo lasciando alle spalle.

L’individualismo come esito di una evoluzione storica

Provo, allora, a ripartire dal rapporto tra individuo e gruppo, quei due concetti, due archetipi direi, che restano alla base della convivenza umana. Con un affresco a pennellate larghissime dei rapporti fra l’individuo e il gruppo, due principi di organizzazione della vita che sono stati sempre in tensione reciproca. Partendo da questa domanda: quali sono i meccanismi, valoriali e istituzionali, di regolamentazione e di disciplinamento? Perchè, in un ragionamento sulla politica, questo è il nocciolo duro.

Sappiamo quanto la religione sia stata fondamentale per disciplinare l’individualismo, sul piano valoriale ma anche ordinamentale, in senso stretto e in senso largo. Sappiamo pure quanto, poi, questo individualismo religioso, per esempio, sia stato alle origini della lettura weberiana dello sviluppo stesso del capitalismo. Sappiamo anche quanto sia stato decisivo, da un certo punto in avanti, per la crescita più in generale dei mercati, anche se con modalità alquanto problematiche. Lo spiega bene quel testo fondamentale del Novecento, La grande trasformazione, di Karl Polanyi, che richiama l’attenzione sull’esplosione del «credo liberale», gli «animal spirits» che a un certo punto erompono e rompono legami sociali secolari di regolamentazione. I legami che in qualche modo lo Stato – lo Stato sociale del Novecento – ha cercato di riportare in auge, e oggi, invece, sono di nuovo sotto attacco per il ritorno dell’individualismo rampante. Rivengono fuori con grande forza. Individui e regolamentazione, interna ed esterna. Grandi tematiche che vengono al pettine.

Tra l’altro, ricorrono quest’anno un cinquecentenario – che qui contribuiamo a ricordare – e un centenario, entrambi negletti. Due rivoluzioni. La Riforma protestante, che mette al centro della vita religiosa, e del mercato, l’individuo con la sua libertà e responsabilità. E la Rivoluzione comunista, che cerca l’estrema difesa del principio collettivo dall’assalto dell’individualismo capitalista. Per usare un’analogia storica, polanyiana, il comunismo è stata la grande «Speenhamland» del Novecento. Cioè, è stato il grandioso tentativo – grandiosamente fallito – di regolamentare il capitalismo. All’inizio dell’esplosione del mercato, alla fine del Settecento, si cercò di imbrigliarlo con una serie di normative che riproponevano l’assistenzialismo del passato per un fenomeno che stava assumendo proporzioni incontrollabili. Durò qualche eroico decennio, fino al via libera della Poor Law  che avrebbe aperto al liberismo, lasciando i poveri liberi di morire di fame, senza più il manto protettivo, e protezionistico, della società.

Il comunismo, per 70 anni, in varie forme più o meno discutibili, ha posto un freno alla grande espansione automatica, autoregolamentata, delle forze del mercato. Si sa come è andata a finire. O forse, non lo sappiamo ancora bene. Sul fallimento dell’utopia comunista sono tutti d’accordo, ma l’approdo non è stato il trionfo della democrazia liberale. È questo magma dell’individualismo social ciò con cui stiamo provando invero a fare i conti.

Esordio e tramonto del «corpo politico»

Per provare a fare i conti sul serio, dobbiamo acquisire pienamente la consapevolezza del tornante storico in cui ci troviamo. Dopo lo «Speenhamland», dopo l’utopia sovietica e dentro la crisi dello Stato sociale, stiamo in realtà consumando l’eclissi del corporate millennium. Quel millennio corporativo di cui annoto, telegraficamente, le tappe fondamentali. Le origini sono nel seminale magistero di Cluny, alla fine dell’XI secolo, quando comincia a prendere forma l’idea, molto astratta ma potentissima, che possa esserci un corpo politico; cioè, che il potere si possa staccare dalla persona, dall’individuo, e costituirlo in un’entità virtuale, collettiva, regolamentata – la riscoperta del codice giustinianeo, con le sue straordinarie implicazioni – e immortale. Nel senso che non muore con la persona del re. Il famoso The King is dead long live the King che poi, nella lettura kantorowicziana, diventerà il doppio corpo del re. Ci sono voluti circa quattro secoli per far nascere, consolidare e legittimare questa costruzione. E c’è voluto, tra l’altro, un passaggio bellissimo teologico, che ricorda Kantorowicz, cioè la dottrina degli angeli, che crea quell’aggancio che consente alla nascente «corporation» di non sfidare la natura divina. Così come gli angeli sono sempiterni, cioè hanno un’origine ma sono immortali, anche i corpi politici possono essere immortali, a condizione di avere un’origine certa.

Allora, in questo ampio scenario, i partiti sono l’ultimo grande corpo. I partiti nascono per ragioni sociali che la teoria politologica ha descritto abbondante- mente nella seconda metà dell’Ottocento. Condizioni che adesso non ci sono più, processi storici che si sono chiusi. The party is over. La partita dei partiti è finita. Il problema non è solo che sia finita nei suoi presupposti sociali, ma che si sta fortemente erodendo anche sul piano istituzionale. Si sta esaurendo quella dimensione corporata, che i partiti hanno interpretato in maniera straordinaria e che li ha resi egemoni, con lo Stato, contro lo Stato, dentro lo Stato. Il corpo del partito, oggi, declina insieme al corpo dello Stato.

Una crisi accentuata dal fatto che, nel frattempo, gli individui riprendono forza sul mercato e, ancor più, in questa nuova dimensione mediatica della quale stiamo vedendo solo i primi, ma velocissimi, passi. Dieci anni fa, facebook nemmeno esisteva. Nelle lezioni di scienza dell’opinione pubblica, ricordo ai miei studenti che ci sono, oggi, 1 miliardo 650 milioni di giornalisti. Perché, come lo chiamate uno che si sveglia la mattina e, la prima cosa che fa, posta un titolo, cioè mette una frase, poi ci mette pure le foto, ecc. Dopo un po’ comincia a vedere la tiratura, cioè quanti follower, quanti like e tutto questo moltiplicatelo per un miliardo 650 milioni, e qual è il risultato? Boh! Facciamo prima a dire che, rispetto alla categoria habermasiana dell’opinione pubblica che ha nutrito la civiltà moderna, questo è proprio un altro mondo, di cui stiamo appena cominciando a vedere l’alba. Un universo antropologicamente ancora, in larga misura, inconosciuto. Ed è in questo universo in formazione che va collocata la domanda, il compito che mi è stato assegnato.

Natura e destino della leadership

Innanzitutto i leader sono, l’abbiamo appena finito di dire, tendenzialmente senza partito. Devono competere e affermarsi in un clima, culturale e sociale, violentemente anti-partito. Ora, è vero quello che dice Flaminia Saccà, i partiti sono stati sempre avversati. Però, sono stati avversati in passato per la loro forza. Oggi, vengono avversati per la loro debolezza. Un tempo, c’era una critica liberale o reazionaria al potere dei partiti. Una critica alla democrazia dei partiti. Perchè i partiti erano quelli che stavano portando le masse nello Stato. La loro fondamentale funzione – per dirla con Triepel, il grande giuspubblicista tedesco – è stata la incorporazione delle masse. Ecco il concetto che fa da trait-d’union con il corporate millennium di cui parlavamo prima. I partiti hanno incorporato le masse nello Stato. Oggi, per tante ragioni che non abbiamo qui il tempo di analizzare, questo ruolo fondamentale si è esaurito. Ha esaurito la sua spinta propulsiva.

Allora, il punto di partenza, e di svolta, è che i leader contemporanei sono dei dirigenti senza partiti. O meglio, non hanno più un partito come secondo corpo, come entità corporata altra da sé, dalla propria persona. Se e quando ne hanno uno, si tratta di un partito con il quale si identificano, si fondono: un partito personale. In Italia – ma non solo in Italia, basti vedere la rapidissima ascesa di Macron – ci sono ormai solo partiti personali. Gli esordi li conosciamo bene, grazie al prototipo straordinario di Silvio Berlusconi, il cui successo è stato legato alla fusione di comunicazione, a mezzo televisione, con la piramide organizzativa aziendale e i suoi tentacoli territoriali, costituita da Publitalia e Mediolanum. Conosciamo anche gli altri tipi, notabiliari o incentrati sulle risorse istituzionali, descritti in vari testi che ho dedicato a questo tema. Qui vorrei soffermarmi su tre tendenze recenti, destinate ad acquisire sempre più peso in futuro.

Tre diverse declinazioni della leadership

La prima è quella dei leader cybercratici, la stiamo vedendo funzionare al meglio in America, attraverso la costosissima campagna elettorale di Trump incentrata sulla pervasività di tweet e fake news: una inedita fusione dell’intuito dell’uomo di affari con gli investimenti miliardari in profilatura, analytics e «data mining». In proposito, possiamo vantare, come italiani, l’anticipo di Beppe Grillo. Forse, perfino più geniale di Berlusconi e di Trump, dato che nell’impresa ha investito pochissimi quattrini. Con un risultato non meno straordinario, visto che è riuscito a crearsi un partito che funziona con un binomio portentoso: una facciata di ideologia iperdemocratica e la realtà di un controllo autoritario, totalitario, attraverso le chiavi di un server gestito da un’aziendina di Milano.

Poi, seconda tendenza, ci sono i leader in business. Quelli, cioè, che fanno affari. C’è un saggio illuminante di Fortunato Musella, su una rivista internazionale, che illustra, con ampia documentazione, l’evoluzione del fenomeno in chiave comparata nell’ultimo trentennio. Schroeder viene subito in mente, viene in mente Blair, ed è probabilmente anche il progetto, magari preterintenzionale, di tanti leader giovani e giovanissimi che si stanno affacciando alquanto precipitosamente sulla scena, e che, spesso, altrettanto precipitosamente, se ne escono portandosi dietro, però, un bagaglio di relazioni e di know-how ad altissimo potenziale di investimento sul mercato.

Infine la terza tendenza, per la quale uso il termine di Ilvo Diamanti e Marc Lazar, in un libro in uscita per Laterza: la populocrazia. Il nuovo regime che si profila minaccioso all’orizzonte, in cui i leader investono soprattutto sui rigurgiti identitari, sulle emozioni. Cercando di speculare su quella che, con una espressione molto bella, Violante ha definito «una democrazia di solitudini».

Non è un quadro molto confortante. Anzi. È bene, comunque, ricordare che queste tendenze non esauriscono il panorama, e gli orizzonti, della democrazia del leader. Aiutano, però, a capire che la transizione sarà lunga. E anche la notte. Per sapere di più, restando alla metafora biblica, ci toccherà tornare a chiedere.

MAURO CALISE – Docente di Scienze politiche Università Federico II di Napoli.

 

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