Il movimento radicale in seno alla Riforma protestante

Volgono ormai al termine le celebrazioni del quinto centenario della Riforma protestante (31 ottobre 1517 – 31 ottobre 2017) che hanno visto anche nel nostro Paese montare un rinnovato, e per molti versi inedito, interesse verso la storia del protestantesimo e della fede evangelica.

Le librerie hanno accolto la comparsa di saggi, talvolta ponderosi, su Martin Lutero soprattutto, ma anche sul fenomeno storico della Riforma del secolo XVI e sui suoi significati in ordine allo sviluppo della modernità e dell’Europa.

Il momento ecumenicamente promettente propiziato dal pontificato di Bergoglio e la maturazione, pur lentissima, di una consapevolezza nuova circa la presenza di identità religiose sempre più plurali e variegate nel panorama sociale del nostro Paese, hanno contribuito ad attenuare la «scomunica culturale» che in esso vige, con poche eccezioni, dal concilio di Trento in avanti, sui personaggi, le idee e la storia del protestantesimo.

Il mondo dell’informazione e della cultura massmediatica, con qualche lodevole eccezione per alcuni quotidiani, non si è troppo lasciato interrogare da questa ricorrenza: non ne sentiva il bisogno evidentemente e non ne avvertiva men che meno il dovere; ma università, accademie, librerie, e ovviamente chiese, hanno ospitato incontri, organizzato dibattiti, presentato volumi e via discorrendo.

Rimane tuttavia la sensazione di aver rispolverato e riscoperto solo una parte della storia, quella in un certo senso più ovvia: Lutero, la sua vicenda, i suoi travagli spirituali, le sue energiche prese di posizione in obbedienza alla propria coscienza, le gerarchie cattoliche ostili, per chiosare poi con il suo parziale recupero da parte del cattolicesimo moderno, complici anche le parole benevoli pronunciate a Lund da papa Francesco (1).

Sul resto non è stato detto quasi nulla. Per carità, non si poteva certo pretendere il recupero integrale della storia del protestantesimo nato da Lutero in avanti.

Solo che il pluralismo, ideale, teologico e persino geografico, connota sin dalle origini la Riforma protestante in una maniera così consustanziale da non poterlo tacere senza tacere fatalmente sulla natura stessa del fenomeno della Riforma.

Pochi altri fenomeni storici hanno visto un simultaneo pullulare di idee, movimenti, leaders carismatici, conventicole, consigli cittadini che, mossi da un medesimo afflato pluriforme dello Spirito – verrebbe da concludere con linguaggio teologico, senza con ciò tacere le non meno pregnanti ragioni carnali – promuovono istanze religiose e politiche affini, e danno luogo a sviluppi così simili ma anche così radicalmente diversi da essere difficilmente configurabili in un unico affresco armonioso.

Di questa storia, ad esempio, fanno parte a pieno titolo anche coloro che al tempo di Lutero, di Zwingli e di Calvino, solo per citare i più noti leaders della Riforma in Germania e in Svizzera, seppero e vollero andare oltre Lutero, Zwingli e Calvino, nella linea di una più radicale adesione all’annuncio evangelico del Nuovo Testamento.

Pluralismo, radicalità e conflitti

La Riforma protestante, ribadiamo, nasce plurale. Martin Lutero, che assurse nei secoli a fulgido rappresentante di tale movimento ecclesiale, da taluni soprannominato “l’Ercole germanico”, non fu infatti l’unica ed eminente espressione della Riforma del suo tempo. Non solo perché dovette riconoscere, ad esempio, abbastanza presto che era in fondo un hussita (2) anche lui; ma anche perché, senza negare il suo indiscutibile e singolare genio teologico, il formidabile carisma e l’apporto decisivo dato allo sviluppo della Riforma, fu nondimeno affiancato e stimolato da validissimi collaboratori e colleghi universitari – riformatori anch’essi – come Filippo Melantone, Niccolò von Amsdorf, Giusto Jonas, e altri, e dovette esser grato anche a personaggi che divennero in seguito suoi avversari ma sulle cui fatiche il suo talento si forgiò, mi riferisco al dotto umanista agostiniano Erasmo da Rotterdam.

Questo protestantesimo collettivo mostrò dunque sin dalle prime fasi un distinguersi di voci e di accenti, che pur suonavano sullo stesso spartito, anche se con velocità diverse.

Andrea Bodenstein, detto «Carlostadio», un collega che aveva insegnato con Lutero nella medesima università di Wittenberg, assunse abbastanza presto un’attitudine radicale: incarnò un protestantesimo iconoclasta e ansioso di svellere le vecchie e inadeguate sovrastrutture liturgiche e religiose della chiesa medievale per far emergere nella sua dirompente novità l’antica purezza delle forme evangeliche. Lutero lo moderò, poi lo fece cacciare, per timore che una troppo rapida introduzione di forme nuove, anche se biblicamente originarie, turbassero e scandalizzassero il popolo e i principi.

I tessitori di Zwickau, che vantavano carismi profetici, giunsero in città per ripristi- nare la chiesa evangelica e con essa il vero battesimo dei credenti. Ma Lutero li apostrofò come schwärmer (esaltati) e li osteggiò fino a farli cacciare.

I rapporti con gli iniziatori della Riforma svizzera, particolarmente con Huldrych Zwingli riformatore a Zurigo, mostrarono subito delle affinità ma anche delle profonde divergenze.

Al punto che anche quando politicamente si invocava l’opportunità di un fronte omogeneo e compatto che accomunasse in un’unica confessione di fede l’intera gamma delle espressioni evangeliche della Riforma, non fu possibile comporlo, in ragione delle differenze teologiche che permanevano tra i teologi di Wittenberg   e gli «svizzeri» (come sovente Lutero li apostrofava non senza un rigurgito nazionalista) in specie riguardo alla comprensione dei sacramenti.

Dunque, la Riforma generò (e fu generata da) una notevole varietà di predicazioni e di ermeneutiche che, pur sintoniche su diversi punti, non si lasciarono tuttavia ridurre ad unum, se non in momenti estremi e per periodi molto limitati.

Fu un limite il pluralismo dottrinale e caotico della Riforma protestante?

Ammesso che abbia senso porsi una simile domanda – i fenomeni storici nella loro intrinseca fattualità non si lasciano infatti porre sul banco degli imputati – possiamo abbozzare due distinte risposte: in parte certamente sì, fu un limite perché gettò le basi di un confessionalismo esasperato e irrelato, contrassegnato da reciproche scomuniche. D’altra parte, il principio umanistico di un pedissequo e rigoroso ritorno alle fonti adottato dai Riformatori non poteva che produrre simili esiti, tutt’altro che infecondi se osservati, per contro, dall’angolo prospettico che vedrà nascere   il mondo moderno come processo di differenziazione critica e di pluralizzazione dei processi, delle discipline e dei registri gnoseologici.

Anabattismo e libertà della chiesa

L’anabattismo fu il movimento, ancorché non omogeneo, che con maggiore coerenza applicò il principio epistemico che i Riformatori magistrali si erano dati. Il Sola Scriptura, per gli anabattisti – così chiamati per la loro tenace volontà di reintrodurre il battesimo dei credenti, ribattezzando coloro che erano stati battezzati da infanti – implicò di conseguenza anche il tota Scriptura.

Essi non accettarono cioè di subordinare (o differire) una robusta e integrale restaurazione della chiesa a considerazioni di ordine politico o sociologico –per così dire – come quelle non di rado sollevate proprio da quei Riformatori magistrali che erano stati venerati come iniziatori.

Un eccesso di biblicismo – cioè un approccio ermeneutico troppo semplicisticamente debitore della lettera del testo – rese certamente difficilissima la comunicazione tra questi gruppi di «nonconformisti» radicali e i grandi Riformatori, ma, al netto di tutto, per una volta nella storia della chiesa: fornai, ciabattini, sarti, contadini, artigiani e pochissimi dotti, ebbero l’ardire di disputare con eminenti accademici e professori di teologia a partire dalla Parola di Dio, e non privi di buoni argomenti.

La lotta per reintrodurre nella chiesa il battesimo dei credenti al posto del pedobattesimo aveva implicazioni di vastissima portata: si trattava niente di meno che di prendere congedo dalla societas christiana di matrice costantiniana e tornare alla ecclesia come comunità degli eletti o anche dei «chiamati fuori», che seguivano il loro Maestro confessando di essere pellegrini sulla terra.

Soltanto così la chiesa cristiana poteva tornare ad essere libera dai condizionamenti del potere secolare e confessare la propria fede in Gesù Cristo accettandone in ogni modo le conseguenze etiche e sociali.

Ma una simile prospettiva era quanto di più lontano potessero immaginare Lutero, Melantone, Zwingli, Calvino, Bucero, e tanti altri.

Il XVI secolo in tutte le sue strutture sociali, politiche, filosofiche e religiose rifiutava questa proposta e non riusciva ancora a teorizzare in termini radicali la differenziazione delle sfere, specie dopo il progressivo avvento – a partire dal 1526 e consacrato poi con la pace di Augusta del 1555 – del regime del cuius regio, eius religio che conferì nuove e problematiche prerogative di intervento nelle questioni religiose al principe territoriale e vincolava tutti i sudditi a confessare la sua medesima religione.

Giovanni Calvino prese nettamente e criticamente le distanze dalla proposta anabattista e teorizzò una chiesa che, pur distinta dalle magistrature politiche – e chiedendo ai cittadini di Ginevra di sottoscrivere una esplicita confessione di fede in modo da evitare l’immediata identificazione tra i cittadini e la chiesa (3) stessa – contasse comunque sulla indispensabile protezione e le garanzie di queste ultime. La chiesa dunque finiva per coincidere, in un caso o nell’altro, con la città; e le istituzioni politiche e civili finivano per condizionare notevolmente la chiesa.

Il movimento anabattista ripudiò questo legame e, pur riconoscendo che l’ordinamento civile originava da un preciso mandato divino (4), considerava la chiesa come un ordinamento a sé stante, totalmente separato e autonomo da quello civile.

La laicità delle istituzioni pubbliche, la libertà di coscienza dell’individuo e la libertà della chiesa di rispondere solo a Cristo, furono nel secolo XVI meritoriamente intuite e promosse dagli anabattisti e da altri dissidenti più compiutamente di quanto non avessero osato fare i grandi maestri della Riforma (5).

Quasi per un gustoso paradosso della storia, la modernità, almeno in alcuni suoi caratteri embrionali, con la sue spinte emancipatorie e secolarizzanti che ponevano inavvertitamente le premesse per una autentica libertà della chiesa, bisogna scorgerla più tra i settari confessanti di Zollikon e di Schleitheim che tra i maestri di Zurigo, Wittenberg e Ginevra.

Anabattismo e libertà nella chiesa?

La libertà della chiesa di rispondere solo alla Parola di Dio rinunciando alla confortante condizione di chiesa stabilita fu dunque la grande profezia degli anabattisti, sbocciata poi più tardi, non senza contraddizioni, in terra anglosassone e nella Nuova Inghilterra.

Ma un’ultima domanda è forse obbligatorio porsi:

La libertà di coscienza e dunque anche di dissenso nella chiesa, fu essa riconosciuta e garantita tra gli anabattisti e nei vari movimenti radicali del tempo?

È chiaro che un simile quesito ha un «innesco» soprattutto moderno ed assume inevitabilmente una ben diversa coloritura se lo si colloca nel quadro degli atteggiamenti mentali e degli avvenimenti del secolo XVI.

Ciò che è possibile ricavare dalle frammentarie testimonianze del tempo è che quantunque singole figure abbiano difeso il diritto al dissenso e alla ricerca teologica in obbedienza alla propria coscienza (6), o in nome dell’illuminazione spirituale del singolo (7), pretendendo cionondimeno di restare in qualche modo organici ad una chiesa o ad un movimento, ben difficilmente, per contro, le chiese e i movimenti radicali nati alla «sinistra» della Riforma accordarono ai loro membri un significativo diritto al dissenso. Sovente esse invocarono piuttosto l’esigenza di un’accurata disciplina ecclesiale interna, atta per un verso a sanzionare eventuali condotte immorali e preservare per altro verso l’omogeneità dottrinale del gruppo: la medesima comprensibile logica, purtroppo, che negli stessi anni aveva impedito alla chiesa stabilita di Ginevra di tollerare la presenza in vita dell’antitrinitario Michele Serveto.

Conclusioni

In conclusione confidiamo di aver illustrato per sommi capi ma con sufficiente chiarezza almeno due questioni e aver lanciato in chiusura una piccola provocazione. Le due questioni che il contributo si proponeva di tematizzare sono in sintesi le seguenti:

  • La strutturale e imprescindibile pluralità ideale (e ideologica), teologica, biografica, del movimento di Riforma maturato nel secolo XVI, ignorando la quale ci si priva di una delle chiavi più importanti di comprensione della nascita del mondo moderno e della chiesa evangelica moderna; pluralità che rifiorisce poi nei risvegli dei secoli XVIII, XIX e XX.
  • La diversa idea di chiesa libera e congregazionale, formata da convertiti, che nasce nei dissidenti anabattisti di Zurigo e prenderà forma solo più tardi nei dissidenti inglesi: battisti, puritani, quaccheri.

La separazione tra stato e chiesa (wall of separation), che sarà più tardi formalizzata nel primo emendamento alla Costituzione americana, ha le sue remote origini in questi movimenti (8).

Da ultimo, quasi provocatoriamente, bisogna ammettere che il passo verso la libertà di coscienza, di dissenso e di ricerca del credente all’interno della propria tradizione religiosa rimane un traguardo non ancora acquisito e spesso mal tollerato in tutte le grandi tradizioni religiose. Porsi oggi questo problema, quando il legame del singolo con le comunità di riferimento appare sovente debole, sfilacciato e occasionale, sembra perfino un esercizio inutile, ma le comunità religiose, al pari di quelle civili, avranno ancora un ruolo e un futuro soltanto nella misura in cui sapranno includere produttivamente il dissenso, valorizzandolo come un simbolo permanente dell’irriducibile alterità dell’umano ad ogni ideologia della maggioranza e ad ogni pensiero che volesse sacrificare la complessità dei punti di vista sull’altare  dell’omologazione  culturale.  O religiosa.

 

DAVIDE ROMANO – Direttore di Coscienza e Libertà.

 

Note

1 Nel corso dell’omelia celebrata a Lund (Svezia) il 31 ottobre 2016, papa Francesco ha detto:

«L’esperienza spirituale di Martin Lutero ci interpella e ci ricorda che non possiamo fare nulla senza Dio. […] Come posso avere un Dio misericordioso? Questa è la domanda che costantemente tormentava Lutero. In effetti, la questione del giusto rapporto con Dio è la questione decisiva della vita. Come è noto, Lutero ha scoperto questo Dio misericordioso nella Buona Novella di Gesù Cristo incarnato, morto e risorto. Con il concetto di ‘solo per grazia divina’, ci viene ricordato che Dio ha sempre l’iniziativa e che precede qualsiasi risposta umana, nel momento stesso in cui cerca di suscitare tale risposta. La dottrina della giustificazione, quindi, esprime l’essenza dell’esistenza umana di fronte a Dio». http://www.interris.it/2016/10/31/105788/cronache/papa/preghiera-ecumenica-comune-il-testo-integrale-dellomelia-di-bergoglio-a-lund.html

2 Cioè un seguace di Jan Hus, riformatore boemo processato e condannato dal concilio di Costanza nel 1415. Nel corso di uno scritto indirizzato a Spalatino, a seguito di una disputa sostenuta contro il domenicano Johann Maier detto Eck, Lutero scrisse infatti pressappoco così: “Eravamo tutti hussiti senza saperlo, e lo sono anche Paolo e Agostino, perfetti hussiti!”. Si veda G. Tourn, I protestanti. Una rivoluzione, Torino, Claudiana, 1993, p. 48.

3 Cnf. E. fiume, La disciplina ecclesiastica nel pensiero di Giovanni Calvino, in G. Long (a cura di), Libertà e disciplina. Nel 500° anniversario di Giovanni Calvino, Torino, Claudiana, 2009, p. 61.

4 «La spada è un ordinamento di Dio al di fuori della perfezione di Cristo. Essa punisce e uccide i malvagi e protegge e difende i buoni. Sotto la legge, la spada è stata istituita per la punizione e la morte dei malvagi ed il suo uso è stato rimesso alle autorità secolari». Accordo fraterno 1527 (Confessione di Schleitheim) punto 6, in R. fAbbri (a cura di), Confessioni di fede delle chiese cristiane, Bologna, edb, 1996, p. 616.

5 Nell’ambito di un interessante disamina proprio su questi temi con il pensiero di E. Troeltsch cfr G. Miegge, Protestantesimo e spiritualismo, Torino, Claudiana, 1965, p. 17.

6 Un nome su tutti, al riguardo, è quello del savoiardo Sebastiano Castellione che non esitò ad adottare sovente posizioni teologiche autonome da Calvino senza per questo intendersi scaduto alla fede evangelica riformata. Ma Calvino lo fece cacciare da Ginevra. Cfr. D. Macculloch, Riforma. La divisione della casa comune europea (1490-1700), Carocci, Roma, 2003, pp. 327-328.

7 Tale era la posizione sovente adottata dai cosiddetti «spiritualisti», quali ad esempio furono Kaspar Schwenckfeld o Sebastian Franck. La loro era invero una rivendicazione di autonomia anche al cospetto delle Scritture che sovente accentuava oltremodo una declinazione della fede cristiana eccessivamente individualistica.

8 Si veda, P. Adamo, Modernità, secolarizzazione e radici protestanti, in Coscienza e Libertà, voll. 49/50 – 2015, p. 17.

 

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