«Era un bambino presuntuoso e saccente. Quando la maestra di prima elementare gli chiese: «Ma tu credi in Dio?», lui rispose: «Beh, credere è una parola grossa. Diciamo che lo stimo».

(Walter Fontana)

La rivincita di Dio nel secolo breve

«Dio è morto, Marx è morto, e neanch’io mi sento troppo bene»: l’arcinota battuta di Woody Allen ci può far sorridere ancor oggi, ma – almeno per quanto riguarda il primo dei tre illustri pazienti citati – le cose sembrano andare ben diversamente.

I tempi stanno cambiando vistosamente, ormai da parecchio, in campo religioso, persino in un paese tradizionalmente sonnacchioso, refrattario alle rivoluzioni e perennemente lacerato fra rigurgiti di laicismo esasperato e di deprimente clericalismo come il nostro. Vorrei qui presentare per sommi capi i caratteri di tale stagione di cambiamenti, in funzione della sottolineatura della necessità di rafforzare l’impegno della scuola italiana – e delle altre nostre agenzie educative – in direzione di un insegnamento del fatto religioso più consapevole e più fruttuoso.

Partiamo dunque dagli elementi di scenario. Il Novecento appena conclusosi, secolo breve e secolo-mondo (1) per eccellenza, si è in qualche misura illuso di fare a meno del senso religioso della vita, sostituendo ad esso i grandi sistemi ideologici totalitari e totalizzanti (dal nazismo al comunismo) o relegandolo esclusivamente ad un ruolo consolatorio e individualistico: provando così, per dirla con un celebre adagio del giusnaturalismo classico, ad agire nel mondo etsi Deus non daretur. Al suo esaurimento e nell’orizzonte della fine dei Grandi Racconti di cui ha parlato per primo J.F.Lyotard, sembra invece che i fondamentalismi e il supermarket interreligioso abbiano ormai invaso ogni spazio pubblico, sociale e persino politico; che il bisogno di una spiritualità diffusa prevalga di gran lunga su ogni altra esigenza umana; e che, infine, l’estrema rapidità delle comunicazioni più o meno virtuali e la facilità dei viaggi aprano squarci assolutamente insospettabili sulle contaminazioni e il meticciato tra le fedi (2). Lasciando spiazzati quanti ritenevano che la secolarizzazione e il disincanto (M. Weber) costituissero un punto di non-ritorno, perlomeno nel pensiero occidentale.

Le cose infatti, dicevamo, stanno cambiando. Non solo, in effetti, siamo transitati in fretta da una stagione – quella, da un punto di vista cattolico, immediatamente contigua al Concilio Vaticano II, col suo dichiarato ottimismo teologico nei confronti del mondo – in cui le parole d’ordine a tale proposito pure erano morte di Dio, eclissi del sacro e fine della religione (3), ad una – quella attuale, da una quindicina d’anni fa a questa parte – in cui gli slogan ricorrenti al riguardo sono diventati piuttosto, in dimensione mondiale, rivincita di Dio e diaspora del sacro (4), a indicarne una sovraesposizione palese anche in ambiti generalmente ritenuti distanti dal contesto religioso in senso stretto. Mentre non pochi privilegiano, parallelamente, quella sorta di soluzione morbida rappresentata dalla scelta di una religione senza Dio (o senza Chiesa).

Un secondo elemento di novità, accanto alla generalizzata ripresa d’interesse e d’investimento di senso sulle cose dello spirito, è poi il carattere di multireligiosità, di pluralismo religioso di fatto (pur se non sempre di diritto, a giudicare dallo stato di salute della libertà religiosa in diversi paesi nel mondo) che accomuna ormai tutte le nazioni dell’Occidente europeo ed extraeuropeo, compresa l’Italia.

Si badi: si tratta di un dato da tempo assodato, oltre che assimilato più o meno comodamente, per le grandi democrazie liberali europee, dalla Francia al Regno Unito, mentre invece non lo è ancora per nulla (o quasi…) per la nostra penisola. Da un lato, infatti, l’immaginario del Belpaese permane ancora staticamente centrato sull’assioma crociano per cui non possiamo non dirci cristiani (che stava, beninteso, per cattolici); dall’altro, invece, la visibilità sociale e il protagonismo delle voci religiose altre sotto il cielo d’Italia vanno fortemente aumentando, fino ad inaugurare scenari nuovi e insospettabili sino a pochi anni fa (5). Costringendoci a rivedere stereotipi, letture consolidate e interpretazioni ritenute a lungo tanto pacifiche quanto indiscutibili.

Il fatto è che stiamo vivendo appieno la fase di passaggio dalla religione degli italiani all’Italia delle religioni, in cui si va manifestando nelle forme più svariate quello che è stato felicemente chiamato, di volta in volta, il mosaico delle fedi (6) o il puzzle delle religioni (7) o ancora, recentemente, il singolare pluralismo (8): da un canto solista che tende a percepire inevitabilmente le presenze diverse in termini di minoranze rispetto a una maggioranza conclamata e indiscussa e ad un regime di monopolio assoluto, a una polifonia che ha tuttora il sapore aspro   di un pluralismo difficile sia da accettare teoricamente sia da gestire in pratica. Difficile, perché non disponiamo ancora dell’abito mentale necessario, e neppure dell’alfabeto linguistico indispensabile per affrontarlo. Difficile, infine, perché negli ultimi decenni, per così dire, Dio ha cambiato indirizzo (O. Vallet), e la stessa ridislocazione del cristianesimo dal Primo al Terzo mondo risulta, almeno in termini numerici, assolutamente spettacolare. «Ai nostri giorni – scrive ad esempio, con buone ragioni, il teologo Johann Baptist Metz – la Chiesa cattolica si trova esposta a una cesura della sua storia, cesura che va considerata come la più profonda dal tempo delle origini» (9).

Villaggio globale, mondialità, interdipendenza, sono così oggi parole chiave non solo dell’economia e della politica, ma anche del sacro e delle fedi: le quali, in un simile contesto, sono necessariamente chiamate a reinventarsi e a riplasmarsi dalle fondamenta, con esiti che, per ora, sembra assai arduo poter prevedere. Mentre pure la proclamazione a Strasburgo di una Charta Oecumenica (aprile 2001), frutto di un percorso comune di tutte le principali chiese cristiane d’Europa, va nella direzione di un ripensamento profondo del loro modo di essere comunità e di incidere positivamente sulle trasformazioni in corso.

Obiettivo del presente intervento è di fotografare a volo d’uccello tale fase, con l’intenzione di fornire alcuni spunti minimi in vista di un itinerario educativo tanto importante quanto ancora scarsamente praticato nel nostro Paese. Di porre sul tappeto i relativi problemi, con l’auspicio di avviarci a una loro gestione intelligente: cosa che, occorre metterlo in conto sin d’ora, non sarà rapida, né presumibilmente indolore, ma ci potrà aiutare a vivere un simile frangente storico, per dirla col linguaggio del Nuovo Testamento, come un vero kairòs. Gli avvenimenti drammatici dell’11 settembre 2001, e quelli seguiti a quella data fatidica a partire dalla guerra in Afghanistan e poi in Iraq, hanno reso più urgenti e necessari il riconoscimento pubblico di tale kairòs e la sperimentazione diffusa di simili itinerari. Qui, il ruolo delle fedi e delle religioni nell’odierno pianeta sempre più globalizzato e interdipendente è definitivamente balzato, a buon diritto, in prima pagina sui media mondiali: coi due leader politico-religiosi in campo entrambi impegnati a coinvolgere il sacro, da una parte gridando al jihad contro gli infedeli, dall’altra rispondendo con un esplicito God bless America. Esplicitando, una volta di più, che l’ignoranza dei fenomeni religiosi equivale tout court all’ignoranza delle dinamiche dell’attualità «da quando, in seguito all’11 settembre, negli avvenimenti quotidiani politica e religione si confondono, ed è difficile tracciare i confini tra quel che è temporale e quel che è spirituale. Da quando dio (sic) è arrivato sui teleschermi e sulle prime pagine, e le storie rivelate invadono di nuovo la storia degli uomini» (10).

Anche sul piano delle opzioni educative e delle scelte didattiche, dunque, occorrerà darsi da fare, poiché la posta in gioco è quanto mai alta.

Il mosaico delle fedi in Italia

In parallelo alla fine del regime di cristianità, il pluralismo religioso è un elemento ormai acquisito del nostro paesaggio sociale e culturale.

Ecco allora che non ci appare più estemporanea l’affermazione secondo cui l’islam rappresenta oggi, e largamente, la seconda religione fra quelle praticate sotto il cielo d’Italia, per numero di aderenti, compresi i circa cinquantamila nostri connazionali convertiti (o ritornati, nel loro lessico); o la constatazione che le moschee e i relativi luoghi di aggregazione, le scuole di lingua araba o i centri islamici, stanno spuntando come funghi sia nei quartieri popolari delle grandi   città sia in paesini di provincia fuori rotta rispetto ai centri maggiori; e ancora, il fatto che nelle scuole e nelle fabbriche, nei centri sociali e negli ospedali sta formandosi fra gli operatori una sensibilità nuova, a partire dalle problematiche della convivenza quotidiana coi fedeli ad Allah.Ed è un dato indubbio che l’islam presente qui, per i sociologi giunto quasi all’improvviso chiuso nelle valigie degli immigrati, sta lentamente tramutandosi in un islam italiano, passando – sia pure con molte difficoltà, ancor più aumentate dopo l’11 settembre e dopo l’esplosione del terrorismo planetario – da fenomeno allo stato nascente ad interlocutore ufficiale per le diverse istituzioni, radicato e disposto a giungere alla stipula di un’intesa formale col governo. Ha ragione il sociologo Allievi a rilevare come «oggi la presenza dell’islam, pur nella ancor relativamente primitiva fase di organizzazione, pone una questione, di fatto prima ancora che di principio, che in prospettiva, non certo adesso, si rivelerà sempre più importante: quella di una pluralizzazione dei riferimenti religiosi che, salvo clamorose contingenze storiche, sarà definitiva e irrimediabile» (11). Un caso serio, perciò, probabilmente aggravato da una doppia anomalia squisitamente italica: da un lato la scarsa abitudine a rapportarsi – perlomeno nei secoli recenti – con una presenza islamica sul territorio della penisola (a differenza di quanto si può dire del rapporto tra francesi e maghrebini, tedeschi e turchi, o britannici e pakistani); dall’altro, il fatto che, se fra le nazionalità di provenienza prevale largamente da noi quella marocchina, essa non detiene però una vera e propria leadership sul piano religioso e/o culturale. Avrebbe poi rappresentato la logica conclusione di un percorso di reciproca conoscenza e accettazione l’approvazione definitiva dell’intesa fra l’Unione Buddhista Italiana da parte del Parlamento, volta a tutelare il crescente numero di seguaci del Dharma nella penisola, che invece non è avvenuta a causa della fine della scorsa legislatura, a marzo 2001. Sarebbe stata la prima stipulata con una compagine religiosa non riconducibile al ceppo ebraico-cristiano, e la prima in campo europeo riconosciuta agli imitatori di Siddhartha Gautama, il Buddha Sakyamuni storico. In evidente aumento risultano sia i centri buddhisti, sparsi a macchia di leopardo nel territorio, sia i singoli affascinati dalla spiritualità orientale, che affollano tanto i corsi di yoga quanto i ricercati seminari del Dalai Lama allorché decide di svolgere una tournée sulle rotte del Belpaese, sia i neobuddhisti della giapponese Soka Gakkai, forti di testimonial eccellenti quali l’attrice Sabina Guzzanti e il calciatore Roberto Baggio (12). Certo, molteplici appaiono le motivazioni di un simile fenomeno: da quelle, più esterne, di una maturata coscienza ecologica e pacifista (valori assai cari alle diverse tradizioni buddhiste), a quelle, più intime, di un notevole bisogno di spiritualità e di meditazione profonda, che non sempre il cattolicesimo sociale postconciliare si è mostrato in grado di interpretare puntualmente. C’è quindi la già ricordata maggiore mobilità di spostamenti, che ha condotto per studio, turismo o lavoro molti occidentali nei luoghi d’elezione del verbo buddhista, e c’è infine un interesse di tipo culturale, medico o salutistico, che non di rado è sfociato in qualcosa di più, in una prassi se pure non in un’appartenenza in senso classico. E qualcosa di simile si può affermare per gli induisti d’Italia, a quanto pare già 50.000 (15.000 dei quali autoctoni) e un ashram, nei pressi di Savona,considerato il più grande del vecchio continente (13). E per i sikh, che hanno il loro centro su scala nazionale in una vecchia cascina nella campagna reggiana, per inaugurare la quale si era significativamente mosso, tre anni or sono, il presidente della Commissione europea, Romano Prodi.

È sotto gli occhi di tutti, poi, l’autentico boom di interesse, cui stiamo assistendo ormai da parecchio, per l’ebraismo e la cultura ebraica nelle sue variopinte sfaccettature, nonostante la scarsa incidenza numerica degli ebrei italiani (sono poco più di 30.000 gli iscritti alle appena 21 comunità sparse sulla penisola, di cui nessuna a sud di Napoli): dall’epopea yiddish di Isaac B. Singer e da quella mitteleuropea di Joseph Roth al favore incontrato dalle esibizioni teatrali di Moni Ovadia e dalle installazioni artistiche di Emanuele Luzzati; dai ripetuti festival su folklore, musica e cucina ebraici all’impegno a favore della ripresa del processo   di pace in Medio Oriente e alla celebrazione della Giornata della memoria, il 27 gennaio di ogni anno a partire dal 2001; fino agli ancora iniziali ma già significativi vagiti di un dialogo cristiano-ebraico, in via di ulteriore consolidamento grazie all’ascesa alla presidenza dell’Unione delle comunità ebraiche in Italia di una personalità quanto mai sensibile ed aperta quale il veneziano Amos Luzzatto (14). Non può essere sottovalutata, inoltre, l’incidenza del rinnovato protagonismo di compagini ecclesiali che accompagnano da molti secoli (sia pure in condizioni di minoranza, almeno dal punto di vista delle cifre) l’evoluzione della nostra storia nazionale, quali la Chiesa valdese, che ha il proprio centro ideale nelle omonime valli nel Pinerolese e gode di una buona popolarità (15), e la Chiesa ortodossa, in cui   gli arrivi recenti degli immigrati dall’Europa orientale si mescolano a una presenza tanto antica e consolidata quanto silenziosa e discreta. E poi ancora i 100.000 pentecostali italiani storici riuniti sotto la denominazione di Assemblee di Dio, gli 80.000 della Federazione delle Chiese pentecostali, i 200.000 immigrati che si possono far risalire a una matrice in qualche modo evangelica. E i testimoni di Geova, i mormoni, i bahai… Per non citare che di passaggio il gran proliferare delle sette e dei culti magici, nonché la fascinazione popolare che riscontra anche da noi la New/Next Age, un fenomeno di particolare interesse del quale occorrerebbe approfondire a lungo motivazioni profonde e prospettive future (16).

In sintesi: gli italiani sono certo ancora cattolici, per storia e deposito culturale, ma lo sono meno di ieri (bisognerebbe poi distinguere fra la marea dei battezzati, oltre il 90%, e quanti frequentano almeno l’eucaristia domenicale, il 20% circa). E non appare azzardato immaginare che domani lo saranno ancor meno di oggi: in tal senso, occorre attrezzarsi sin d’ora per affrontare un simile panorama eccezionalmente in progress, destinato peraltro a convivere col processo di secolarizzazione tuttora in atto (una contraddizione, direi, soltanto apparente). Verso la realizzazione effettiva di una casa comune delle fedi, per ora in larga parte ancora tutta da costruire, e impossibile da edificare se non accettando a pieno titolo la sfida della laicità e del riconoscimento reciproco. Uno scenario plurale e per certi versi affascinante, in ogni caso, che richiede al mondo della scuola e della formazione un salto di qualità rispetto alla situazione odierna.

Sui sentieri di un’ora delle religioni

In un panorama come quello sommariamente descritto, emergono sempre più chiaramente gli intrecci – quelli storici, e quelli sorti da poco – fra le religioni e i diversi saperi: le arti, la letteratura, la filosofia, le scienze, e così via. Appare evidente, peraltro, che la nostra realtà scolastica non è, attualmente, in grado di far fronte a tale nuova situazione, che abbiamo cercato di delineare per sommi capi. Se analizzassimo il ruolo che ricopre lo studio delle religioni nella scuola italiana, ci si potrebbe a buon diritto scoraggiare: l’unico spazio istituzionale – com’è noto – è quello relativo all’insegnamento della religione cattolica (IRC), in cui l’analisi approfondita delle confessioni religiose altre è sostanzialmente lasciata al buon cuore e alla disponibilità personale del docente, visto il rango ridotto cui esse sono relegate nei programmi e negli appositi libri di testo (salvo eccezioni, destinate a confermare la regola).

Per il resto, l’aspetto multireligioso fa capolino qui e là, ogniqualvolta non è proprio possibile espungerlo del tutto, in storia, filosofia, lettere: fornendo, peraltro, la precisa percezione che esso non venga ritenuto un elemento centrale, e spesso decisivo, per cogliere l’evoluzione dei popoli e le dinamiche del pensiero, sia occidentale sia orientale (17).

In un quadro del genere, non rimane che affermare perentoriamente l’assoluta necessità di cambiare strada, di prendere sul serio le domande sospese, e di far entrare esplicitamente, tanto nella formazione dei docenti quanto nella programmazione curricolare, lo studio della Bibbia, grande codice della cultura occidentale, e lo studio delle varie religioni (da coniugare rigorosamente al plurale).

Sembra persino superfluo – nel primo caso – sottolineare il rischio di non poter cogliere le ricchezze di senso insite nella Commedia dantesca, nella produzione di Giotto o nel canto gregoriano (per non citare che alcuni esempi macroscopici), mancando persino qualsiasi forma di elementare alfabetizzazione biblica. E che dovrebbe trattarsi ovviamente, in ogni caso, di un apprendimento a-confessionale, ad esempio sulla linea di quello auspicato dai lavori del Comitato Bibbia Cultura Scuola, costituito alcuni anni fa da un folto gruppo di associazioni e riviste a partire da un apposito appello lanciato da Biblia (18).

Nel secondo caso, manca un progetto complessivo e ufficiale sullo studio delle diverse religioni, ed è da mettere in conto che, da parte delle svariate confessioni religiose ormai diffuse nella penisola, non si diano opinioni uniformi in merito al problema. Anzi, non è difficile immaginare che anche all’interno di esse ci sia chi proclama la necessità di un’indagine laica (nel senso che abbiamo brevemente delineato sopra) e a-confessionale delle religioni, offerta dalla scuola e impartita da specialisti della materia, e chi al contrario auspicherebbe senz’altro la nascita di scuole confessionali, che prevedessero un insegnamento impartito direttamente dai rappresentanti ufficiali delle religioni stesse, di cui in tal modo verrebbe garantita l’ortodossia.

Come si vede, il ginepraio delle posizioni è quanto mai inestricabile, mentre una questione non secondaria riguarderà altresì la preparazione e la certificazione dei necessari docenti di storia religiosa, in assenza, nel nostro paese, di facoltà teologiche statali (19).

Significativo è, pertanto, lo sforzo che da qualche anno è stato avviato dal mensile di educazione interculturale «CEM Mondialità», edito a cura dei padri saveriani di Brescia, sul tema dell’insegnamento della religione in prospettiva interculturale. Il CEM ha scelto, fra l’altro, di mettere a disposizione degli insegnanti che intendessero sperimentarla la traduzione in italiano del manuale di insegnamento della religione sviluppato a Bradford (Regno Unito) dal Centro di Educazione Interreligiosa e largamente utilizzato sia da docenti di Bradford sia da colleghi di altri paesi europei con classi multiculturali: i primi risultati sembrano incoraggianti, anche se occorrerà contestualizzarlo maggiormente nella situazione del nostro paese (20). È ormai dal settembre 1995 che tale Centro ha preso a promuovere nelle duecento scuole cittadine un corso comune, in cui le lezioni settimanali vengono comunque adattate alle esigenze delle singole scuole, basandosi sullo studio comparato di sei religioni, quelle maggiormente presenti in loco (buddhismo, cristianesimo, ebraismo, induismo, islam, sikh). Ciascun modulo si fonda su un tema specifico, dai luoghi di culto   ai segni e simboli, dai testi sacri ai profeti. Stando ai resoconti dei docenti che l’hanno sperimentato, il metodo è piuttosto semplice: ogni argomento viene affrontato a partire dalle esperienze degli alunni coinvolti, quindi vengono proposti dei laboratori in cui si dà la possibilità di incontrare gli altri alunni, e di lavorare con loro. Infine, si passa ad un’analisi comparata. Con un chiaro e duplice obiettivo educativo: gli alunni dovrebbero imparare ad apprezzare i valori religiosi degli altri, nonché a identificare quelli che hanno in comune. Senza sincretismi né intenti apologetici… Il testo di partenza, cui accennavo sopra, è il Bradford Agreed Syllabus for Religious Education, un manuale pubblicato dal citato Centro di Educazione Interreligiosa nel ‘96, tendente a offrire per ogni fascia d’età scolastica prospettive religiose diverse al fine di riflettere su argomenti che spaziano dal viaggio alle festività sacre, dall’idea della vita e del mondo ai conflitti e al dialogo possibile (e necessario, peraltro). Due anni fa, su una linea non distante «CEM Mondialità» si è fatto promotore di un convegno internazionale, svoltosi a Brescia col titolo «È l’ora delle religioni? La scuola e il mosaico delle fedi» (21). L’esito, assai lusinghiero, dell’iniziativa ha convinto gli organizzatori ad eliminare il punto interrogativo del titolo, e a proporre alla società e al mondo della scuola italiana cinque Sentieri verso l’ora delle religioni, auspicabili quanto aperti, che credo sia opportuno riportare integralmente qui, come punti di partenza da sviluppare ulteriormente.

In una fase storica contrassegnata dal protagonismo e dal pluralismo del religioso e delle religioni, la scuola e le istituzioni educative debbono farsi carico di un’alfabetizzazione del sacro assolutamente indispensabile per comprendere i processi culturali, sociali e politici in atto su scala addirittura planetaria.

Va sottolineato adeguatamente, in questa direzione, lo straordinario intreccio di saperi che già oggi sono protagonisti della scuola (letteratura, arte, scienze, filosofia, musica, ecc.) col religioso e con le religioni: un intreccio che per ora un perverso combinato di laicismo e di clericalismo ha contribuito a sottovalutare e a non tenere in considerazione, con gli effetti di analfabetismo religioso che purtroppo abitualmente constatiamo.

Occorre perciò un impegno serio da parte delle istituzioni preposte, delle università e degli enti locali, per offrire una formazione sul religioso permanente e qualificata ai docenti delle diverse materie. Dobbiamo rilanciare per il curriculum scolastico e la formazione dei docenti, come un vero e proprio impegno civile, lo studio della Bibbia quale grande codice della cultura occidentale, punto di riferimento essenziale – nelle sue diverse interpretazioni e letture – per cogliere la storia della letteratura, dell’arte, della musica, delle scienze, e così via.

È necessario, infine, puntare a un insegnamento a-confessionale delle religioni nella scuola pubblica, curriculare, obbligatorio e quindi non alternativo all’insegnamento concordatario della religione cattolica: un’ora delle religioni attorno alla quale avviare un dibattito senza ideologie né timori preconcetti. Si tratta di   un imperativo ormai non più eludibile, per una società moderna, plurale, europea e planetaria.

C’è anche molto altro, naturalmente. E fortunatamente. Calendari ecumenici e interreligiosi che spuntano come funghi, seminari universitari, corsi d’aggiornamento, incontri organizzati da enti locali, diocesi e parrocchie, testi (più o meno accurati) che cercano di fornire chiavi di lettura di quanto sta accadendo così in fretta, tracce corpose di questa nuova sensibilità rinvenibili su Internet… e c’è soprattutto – direi – da rimboccarsi le maniche. La strada è lunga, e l’atlante della fede in Italia (ma anche in Europa e sull’intero pianeta) si va arricchendo e complicando: stiamo rischiando di non riuscire a riconoscere quello che ho definito sopra un autentico kairòs, civile e religioso a un tempo, di non apprezzarlo e di non poter coglierlo nella sua reale portata, di problema ma anche occasione insieme. Come ha ammesso qualche tempo fa l’allora arcivescovo di Milano, Carlo M. Martini, «il pluralismo religioso è oggi una sfida per tutte le grandi religioni, soprattutto per quelle che si definiscono come vie universali e definitive di salvezza… Se non si vuole giungere a nuovi scontri, occorrerà promuovere con forza un serio e corretto dialogo interreligioso». È questa la sfida – non solo squisitamente teologica, ma anche sociale e politica, oltre che pedagogica e persino didattica che ci sta davanti, che interpella le nostre istituzioni educative: personalmente, ritengo davvero valga la pena di non lasciarla cadere, da tutti i punti di vista.

Anche perché – come forse ci potrebbe spiegare quel bambino presuntuoso e saccente che abbiamo incontrato in apertura – se credere è una parola grossa, conoscere è una parola necessaria. Anzi, è una parola, oggi più che mai, asso- lutamente doverosa. Fino a costringere quel bambino a rispondere, in un futuro non lontano: «Credere è una parola grossa; però studio i fenomeni religiosi e così stimo le donne e gli uomini di fede, anche quelli che credono in un Dio diverso dal nostro».

 

BRUNETTO SALVARANI – Teologo e scrittore, direttore del mensile CEM Mondialità. Articolo edito in Coscienza e Libertà 38/2004.

NOTE

1 Cfr. E. J. Hobsbawm, Il secolo breve, Rizzoli, Milano, 1997; M. Flores, Il secolo-mondo. Storia del Novecento, Il Mulino, Bologna, 2002.

2 Cfr. J. Audinet, Il tempo del meticciato, Queriniana, Brescia, 2001. Scrive Audinet, ed è difficile non condividere le sue considerazioni: «A questo punto si tratta di guardare in avanti. Non verso un passato mitico, quello delle tradizioni immutabili o di una purezza illusoria, pericolo di tutti i nazionalismi e di tutti gli integralismi. Ma verso il possibile degli incontri interumani, dei meticciati ineluttabili. Non è dunque la fine della storia. Ma, al contrario, il suo rinnovamento permanente, il gioco infinito della novità capace di ricrearsi incessantemente. Imprevedibile, come il flusso continuo degli umani che si mescolano e generano altri umani, facendo emergere sul suolo del pianeta Terra la grande varietà delle società e delle culture. Il tempo del meticciato è oggi» (p. 209 ss.).

3 Rinvio a qualche titolo esemplare dell’epoca: S. Acquaviva, L’eclissi del sacro nella società industriale, Edizioni di Comunità, Milano, 1961; A. T. Robinson, Dio non è così, Vallecchi, Firenze, 1965; W. Hamilton, La teologia radicale della morte di Dio, Feltrinelli, Milano, 1969; P. M. Van Buren, Il significato secolare del Vangelo, Gribaudi, Torino, 1969.

4 Anche in questo caso, ricordo almeno un paio di volumi tra i più rappresentativi di tale tendenza: G. Kepel, La rivincita di Dio. Cristiani, ebrei, musulmani alla riconquista del mondo, Rizzoli, Milano, 1991; e il best seller citatissimo, soprattutto alla luce degli eventi dell’11 settembre 2001, S. P. Huntington, Lo scontro delle civiltà e il nuovo ordine mondiale, Garzanti, Milano, 1998.

5 Ho cercato di descrivere tale processo e i suoi principali esiti in chiave sociologica e teologica in due interventi, cui rinvio per un’analisi più dettagliata della questione: Per amore di Babilonia. Religioni in dialogo alla ne della cristianità, Diabasis, Reggio Emilia, 2000; «Una mappa per capire. Religioni e confessioni in Italia», in Il Regno-attualità, 2000, n.14, p. 443-446; sul medesimo tema, con l’intenzione di leggere dall’interno i diversi mondi religiosi italiani, ricordo il nostro F. Ballabio, B. Salvarani (a cura di), Religioni in Italia. Il nuovo pluralismo religioso, Emi, Bologna, 2001. Andrebbe dunque messa in discussione, pertanto, l’impostazione suggerita, in un libro dalle tesi peraltro largamente condivisibili, dal sociologo Franco Garelli, che un paio di lustri fa sosteneva: «L’ipotesi è che – anche in un contesto di modernità – il nostro paese non abbia a caratterizzarsi per quel pluralismo delle fedi, per quella molteplicità delle espressioni religiose, riscontrabile in molti paesi occidentali» (E. Garelli, Religione e chiesa in Italia, Il Mulino, Bologna, 1991, p. 13).

6 P. Naso, Il mosaico della fede, Baldini&Castoldi, Milano, 2000. Un articolato sguardo a più voci sul medesimo tema, in chiave multidisciplinare, è reperibile nel n. 1/2000 dei Quaderni di diritto e politica ecclesiastica, intitolato «Multiculturalismo e religione: il caso italiano». Sul versante squisitamente sociologico segnalo quindi S. Allievi, G. Guizzardi, C. Prandi, Un Dio al plurale. Presenze religiose in Italia, Edb, Bologna, 2001; e, su scala europea, S. Allievi, «Pluralismo religioso e società multietniche», in Filosofia e teologia, n. 3, 1999, p. 433-455. Frutto di una monumentale ricerca del Cesnur di Torino, infine, è M. Introvigne et al., Enciclopedia delle religioni in Italia, Torino-Leumann, 2001.

7 F. Ballabio, Le religioni e la mondialità. Per una fede capace di ascolto e di dialogo, Bologna, Emi, 1999.

8 Cfr. F. Garelli, G. Guizzardi, E. Pace (a cura di), Un singolare pluralismo. Indagine sul pluralismo morale e religioso degli italiani, Il Mulino, Bologna, 2003.

9 J. B. Metz, «Unità e pluralità», in Concilium, n. 4, 1989, p. 102 ss.

10 B. Valli, «Quando Dio invade la storia dell’uomo», in La Repubblica, 8 aprile 2002, p.1.

11 S. Allievi, F. Dassetto, Il ritorno dell’Islam, Edizioni Lavoro, Roma, 1993, p. 290. Sempre S. Allievi ha prodotto un documentato Islam italiano, Einaudi, Torino, 2003; sulle prospettive future delle re- lazioni fra musulmani e cristiani, rimando al nostro P. Naso, B. Salvarani (a cura di), La rivincita del dialogo. Cristiani e musulmani in Italia dopo l’11 settembre 2001, Emi, Bologna, 2002.

12 Per uno sguardo complessivo sulla storia e sulle caratteristiche del buddhismo nel nostro paese, rinvio a F. Ballabio, B. Salvarani (a cura di), «Buddhisti in Italia», in Sette e religioni, n.14, 1998.

13 Si vedano al riguardo L. Cuocci, «Un “ashram” sulle colline liguri», in Confronti, n. 3, 2001, pp. 19-21; e il mio «Lungo le rive del Gange», in Settimana, n. 8, 2001, p.14.

14 Rinvio ai due recenti volumi: A. Luzzatto, Il posto degli ebrei, Einaudi, Torino, 2003; Idem, Una vita tra ebraismo, scienza e politica, a cura di M. Giuliani, Morcelliana, Brescia, 2003.

15 «Perché sono simpatici i valdesi», sentenziava in copertina qualche anno fa un settimanale, sottolineando che a fronte di soli trentamila iscritti, ben 130.000 nostri connazionali (un numero che di anno in anno sta ancora crescendo!) versavano alla chiesa valdese il contributo dell’otto per mille: cogliendo bene una percezione collettiva relativa a una comunità italiana da parecchi secoli non concorrenziale a quella maggioritaria, caratterizzata da un’adesione a valori rigorosi e saldamente europei (cfr. L. Del Sette, «I Valdesi, strana gente cui gli italiani danno soldi volentieri», in Diario, n. 1998, 46, pp. 18-27; e per uno sguardo storico più ampio, G. Tourn, Italiani e protestantesimo, Claudiana, Torino, 1997).

16 Cfr. il paragrafo «La pervasiva leggerezza dell’essere. Il modello soft della New Age», nel mio Per amore di Babilonia, cit., pp. 60-68.

17 Per un’analisi approfondita delle problematiche relative allo studio delle religioni nel nuovo contesto multireligioso del vecchio continente, ricordo il bel fascicolo monografico di Religioni e società dedicato a «L’insegnamento delle scienze religiose in Europa», n.37, 2000.

18 Composto nel contesto di un convegno napoletano organizzato da Biblia (associazione laica di cultura biblica) nel 1989, l’appello per l’inserimento della Bibbia nel curriculum professionale degli insegnanti, più ancora che per la creazione di una specifica ora di Bibbia, venne firmato da personalità di svariata provenienza culturale – da Alberoni a Bo, da Cacciari a Contini, da Eco a Magris, da Ravasi a Turoldo – con l’intento esplicito di «contribuire a colmare una carenza storica gravissima della cultura e della scuola italiana: l’assenza di una conoscenza adeguata del grande codice dell’Europa e dell’Occidente, la Bibbia». Su questo tema, ho scritto il manuale A scuola con la Bibbia. Dal libro assente al libro ritrovato, Emi, Bologna, 2001, con la prefazione di mons. Gianfranco Ravasi.

19 Mi riferisco, naturalmente, al fatto che negli anni successivi al Concilio Vaticano I, con una Legge del 26/1/1873, furono abolite in Italia le facoltà di teologia ancora esistenti nelle università statali, e che il mondo cattolico dell’epoca non si sia curato particolarmente della cosa. I cui effetti, in termini di svalutazione della funzione culturale del dato religioso, di contributo all’ignoranza diffusa dei nostri connazionali in questo campo e di apertura di credito a processi di anticlericalismo esasperato, da un lato, e di laicismo altrettanto deprecabile dall’altro, sono, ahimè, sotto gli occhi di tutti.

20 Per altre informazioni e per richiedere i materiali del Manuale di Bradford: cemmondialita@saveriani.bs.it. Colgo l’occasione di segnalare che, fra aprile e maggio 2002, si è svolto sulle medesime tematiche un seminario, organizzato dal Centro Studi Religiosi della Fondazione San Carlo di Modena, dal titolo «Le religioni nella scuola europea. Stati e Chiese dell’Unione alla prova del pluralismo», in cui si è discussa «la necessità di elaborare un modello di spazio pubblico laico alternativo a quello assimilazionista e capace di misurarsi col pluralismo etico, culturale e religioso» (per informazioni sul seminario: www.fondazionesancarlo.it).

21 Si veda il volume, che ne riporta gli atti, L. Pedrali (a cura di), È l’ora delle religioni, Emi, Bologna, 2002.

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