Abbiamo l’abitudine di considerare la religione – le credenze e le pratiche, i riti e i servizi di adorazione, le differenti forme di espressione e di impegno religioso – come uno degli oggetti delle leggi relative ai diritti umani. In altre parole, pensiamo che queste leggi proteggano la religione o, almeno, tendano a farlo. I principali strumenti dei diritti umani confermano questo approccio logico, se non completo. Per esempio, secondo la Dichiarazione universale dei diritti umani del 1948, ogni «persona ha diritto alla libertà di pensiero, di coscienza e di religione», e gli organi della società dovrebbero sforzarsi «di sviluppare il rispetto di tali diritti e libertà e di assicurarne […] il riconoscimento e l’applicazione universale ed effettiva». Parimenti, la Convenzione europea dei diritti umani del 1950 dichiara che i firmatari «riconoscono a ogni persona che rientra nelle competenze della loro giurisdizione [questi] diritti e libertà». La Costituzione americana affronta l’argomento in modo abbastanza caratteristico, vale   a dire in termini di costrizione che pesano sul governo piuttosto che di raccomandazioni o di aspirazioni, ma pone anche la libertà religiosa – o il «libero esercizio» della religione – al primo posto dei diritti protetti dal Primo emendamento.

Disposizioni come queste sono il segno di un impegno a tutelare la libertà religiosa che sembra largamente condiviso oggi, anche se è rispettato in maniera diseguale e imperfettamente compreso. Tuttavia, una cosa è prendere un tale impegno e iscriverlo nella legge, e un’altra è metterlo in pratica e mantenerlo. Se vogliamo «unire il gesto alla parola», allora dobbiamo far fronte a due difficoltà, distinte ma legate malgrado tutto. Innanzitutto, occorre definire la «libertà di reli- gione» che siamo determinati a garantire. È più facile dirlo che farlo. Dichiariamo con fierezza e certezza che «tutti hanno diritto alla libertà di religione», ma di che cosa parliamo esattamente? Che cosa è «religione»? E che cosa significa: «essere libero»? Libero da che cosa? Per fare che cosa? Che cosa vuole dire «avere diritto alla libertà» – di religione o di altro? Che cosa differenzia la «libertà di religione» dalla libertà pura e semplice? La distinzione tra le due si giustifica, supponendo che possa essere definita dalla legge? E ancora altre domande…

Supponiamo, per il momento, di riuscire a trovare delle risposte valide e convincenti a queste domande, delle risposte che corrispondano alla natura, alle esperienze, ai bisogni e alle aspirazioni degli esseri umani. Pur tenendo a mente il «fine», possiamo passare allora alla questione dei «mezzi». In altre parole, dobbiamo decidere quali meccanismi legali o di altro genere desideriamo attuare per mantenere il nostro impegno e giustificarlo. Dopo tutto, la nostra speranza è di costruire qualcosa   di più delle «mere barriere di pergamena», usando l’espressione di James Madison, contro le violazioni della libertà religiosa. Per questo, ci sono forse dei meccanismi migliori, o meno peggiori, di altri e che quindi potrebbero funzionare meglio, o meno peggio; degli attori e delle autorità politiche forse più, o meno, affidabili ed efficaci di altri nel loro ruolo di protezione. Le nostre attese piene di ottimismo su alcuni processi potrebbero essere irrealistici, e il nostro scetticismo (vedi cinismo), rispetto ad altri processi, infondato. Il fatto è che ogni progetto che mira a proteggere i diritti umani – ivi compreso il diritto alla libertà religiosa – esige una riflessione sui bisogni e le aspirazioni degli uomini, ma implica anche che si dibatta sulle questioni che riguardano l’organizzazione e la competenza istituzionale.

Ora, per quanto riguarda la prima difficoltà dianzi evocata, è facile proporre alcune definizioni di base, anche se soltanto alcune, non controverse, intorno alle quali potremmo approfondire la nostra comprensione di ciò che è la «libertà di religione». Tra queste, per esempio, ci sarebbe chiaramente la definizione proposta dalla Corte suprema degli Stati Uniti nel dossier Employment Division contro Smith (1990), cioè «il diritto di credere e di professare qualunque dottrina religiosa si desideri». Bene. Ma cos’altro?

Per quanto riguarda la seconda difficoltà, potremmo ricordare sicuramente che ci sono alcuni obblighi imposti al governo, confermati sul piano giuridico e costituzionale – obblighi come quelli previsti dalla Dichiarazione dei diritti dei cittadini (il Bill of Rights) – come mezzo fondamentale per concretizzare le nostre aspirazioni. È vero che, citando le sagge parole del giudice Learned Hand, la «libertà risiede nel cuore degli uomini e delle donne; ma quando in esso vi muore, nessuna costituzione, legge o tribunale possono salvarla» (1). tuttavia, non si può negare che le costituzioni, le leggi e i tribunali giochino un ruolo fondamentale per il nostro progetto. Fin qui, tutto bene. Ma, che cosa fare ancora? Quali altre misure potremmo prendere o quali strumenti potremmo utilizzare per permettere alla libertà religiosa di sbocciare, non solo nel «cuore degli uomini e delle donne», ma anche in questo mondo di disordine e violenza, dove regnano la miseria, l’interesse personale, i compromessi e la discordia? Questo articolo ha l’obiettivo di trattare questi due aspetti, ciò significa prendere in considerazione contemporaneamente l’essenza della libertà religiosa e i diversi mezzi adoperati per tutelarla e promuoverla. In primo luogo, suggerisco che il «diritto alla libertà di religione» appartiene non solo agli individui, ma anche alle istituzioni, alle organizzazioni, ai gruppi e alle comunità. Come ogni persona ha il diritto di ricercare la verità in materia di religione e di aderirvi quando l’ha trovata, così i gruppi religiosi hanno il diritto di avere e insegnare le proprie dottrine; come ogni persona deve essere preservata dalle pressioni amministrative per quanto riguarda le sue pratiche e le sue professioni di fede, così le istituzioni religiose hanno il diritto di autogovernarsi e di esercitare l’autorità che spetta loro senza nessuna ingerenza statale; come ogni persona ha il diritto di scegliere le credenze religiose che desidera abbracciare, così le Chiese hanno il diritto di scegliere i ministri di culto che desiderano ordinare. Nel caso Wisconsin contro Yoder (1987), il giudice William Douglas ha sottolineato che «la religione è un’esperienza individuale»; sicuramente è così, ma non è solo questo. Dopo tutto, come ha ricordato il giudice William Brennan nel caso Corporation of the Presiding Bishop contro Amos (1987), «per molti individui, l’attività religiosa assume gran parte del suo significato nell’adesione ad una comunità religiosa più ampia, caratterizzata da una tradizione vivente di credenze condivise; un’entità fondamentale che non si può ridurre a un semplice raggruppamento di individui». Queste «entità fondamentali» sono l’argomento, e non unicamente il risultato o una conseguenza indiretta, della libertà religiosa. Così, al centro della libertà religiosa si trova ciò che, nel diritto costituzionale americano, si definisce «l’autonomia della Chiesa» che il teologo gesuita americano John Courtney Murray, e come lui molti altri, chiamava «la libertà della Chiesa» (2).

Tale diritto all’autonomia delle Chiese, che è una delle dimensioni della libertà religiosa, è anche un oggetto della legislazione sui diritti umani. Ma è pure un mezzo, un meccanismo strutturale, destinato a tutelare in modo più generale sia la libertà religiosa sia i diritti umani. La relazione fra la tutela dei diritti umani e il diritto all’autodeterminazione dei gruppi religiosi è una relazione dinamica nella quale questi due aspetti si rafforzano reciprocamente. In altri termini, la legislazione dei diritti umani preserva l’autonomia delle Chiese, garantisce ai gruppi religiosi la libertà di organizzarsi e amministrarsi, di prendere delle decisioni nel campo religioso senza l’ingerenza governativa, di applicare i propri criteri riguardo ai membri, ai responsabili, alle dottrine, ecc. A sua volta, l’autonomia delle Chiese favorisce l’esercizio dei diritti umani e i benefici che esso porta. Secondo Murray, questo meccanismo è «il contributo essenziale del cristianesimo alla libertà nell’ordine politico» (3). Se riusciamo a comprendere e apprezzare tale contributo, potremo meglio comprendere e apprezzare nel giusto valore una nozione spesso mal compresa e usata impropriamente: la «separazione tra Chiesa e Stato».

La natura dei diritti dei gruppi religiosi

Gli americani hanno una concezione molto individualistica dei diritti. Pensano che i diritti riguardino determinate persone e proteggano la loro vita privata, i loro interessi e la loro autonomia dall’autorità esterna. Non bisogna quindi stupirsi se in America le decisioni sulla giustizia e gli interventi pubblici riguardanti la libertà religiosa tendono a concentrarsi sui diritti, le credenze, le coscienze e le pratiche individuali. Ora, come ha dimostrato, circa vent’anni fa, la giurista Mary Ann Glendon nella sua critica inconfutabile del discorso politico americano e del sistema giuridico che esso rispecchia e genera, questa focalizzazione è riduttiva e deforma la realtà.4 Essa ci porta a trascurare e a lasciare da parte il contesto sociale in cui le persone si evolvono e formano, come anche la natura specifica, il ruolo distintivo e le libertà particolari dei gruppi, delle organizzazioni e delle istituzioni. Vale la pena notare che non facciamo questo errore solamente per ciò che riguarda la libertà religiosa. Lo specialista di diritto costituzionale Frederick Schauer ha mostrato che la nostra legislazione, quando ha avuto a che fare più generalmente con la libertà di espressione, di coscienza e di credenza, è stata «costantemente reticente a elaborare dei principi adattati alle istituzioni, e quindi di tener conto delle disparità culturali, politiche ed economiche esistenti tra le istituzioni di generi differenti che, insieme, formano una società» (5).

Certo, la persona umana, qualunque individuo, ha la sua importanza. «Ha un valore senza limite, è assolutamente unica e infinitamente degna di interesse» (6). Come afferma lo scrittore irlandese C.S. Lewis, ciascuno porta in sé un «peso di gloria». E continua dicendo che «non ci sono persone ordinarie»: «Non avete mai parlato a un semplice mortale. Le nazioni, le culture, le arti, le civiltà, tutto questo è mortale, e la loro vita è per noi come la vita di un moscerino. Ma sono gli esseri immortali con i quali scherziamo, lavoriamo, che sposiamo, respingiamo e sfruttiamo, orrori immortali o splendori eterni» (7).

È normale dunque che l’immagine del dissidente religioso isolato, che affronta eroicamente la tirannide amministrativa o le pretese stravaganti del potere statale, armato soltanto degli imperativi della sua coscienza, sia per noi evocatrice ed eterna. Basti pensare a Tommaso Moro, e forse anche a tutti i dissidenti che ha contribuito a fare perseguitare, come appare nel film Un uomo per tutte le stagioni. Niente di ciò che si potrebbe dire sulla libertà religiosa sarebbe completo se si passassero sotto silenzio questi conflitti o se si dimenticasse di celebrare un tale coraggio.

Tuttavia, Mary Ann Glendon aveva ragione: c’è qualcosa che manca quando la libertà religiosa si riduce alla libertà di coscienza dell’individuo, alla sua libertà di credere o anche al suo diritto di scegliere di praticare un culto o di intraprendere delle azioni motivate dalla sua religione. Un sistema giuridico dei diritti umani che è destinato a tutelare soltanto questa nozione ridotta della libertà religiosa renderà vulnerabili alcuni aspetti importanti di tale libertà, lasciandoli senza protezione. Questo sistema non potrà durare perché dà del mondo un’immagine incompleta, forse anche falsata, lasciando da parte e dimenticando alcuni dei suoi aspetti importanti. Dovremmo volere che le nostre leggi, e forse in modo speciale quelle concernenti i diritti umani, siano il riflesso fedele di ciò che è essenziale e che conta veramente nel mondo reale che esse governano e al quale si rivolgono. In altre parole, dovremmo volere che le nostre legislazioni sui diritti umani riconoscano, quindi rispettino e proteggano, la libertà che appartiene legittimamente ai gruppi religiosi, alle associazioni, alle istituzioni e alle organizzazioni religiose.

Che cos’è dunque questa libertà che integra e aiuta gli individui a beneficiare dei loro diritti alla libertà religiosa? Sembra logico ritornare, innanzitutto, alla proposta di base secondo la quale, usando le parole di Murray, la Costituzione garantisce la libertà di religione non solo agli individui credenti ma anche alla «Chiesa in quanto società organizzata che ha le proprie leggi e giurisdizioni» (8). I diritti che la Corte suprema degli Stati Uniti ha definito «diritti ecclesiastici» (9) sono protetti dal Primo emendamento e da altri strumenti dei diritti umani, non meno dei diritti degli individui. Non sono, o almeno non dovrebbero essere, considerati come semplici derivati o sostituti dei diritti individuali. La loro tutela non è soltanto un mezzo per garantire le libertà degli individui» (10).

Bisogna anche sottolineare che la protezione dei «diritti ecclesiastici» previsti dalla Costituzione americana non è un’eccezione né un’anomalia. Il fatto che la libertà religiosa abbia un aspetto comunitario, collettivo, e che comprenda un diritto all’autonomia e all’autodeterminazione dei gruppi religiosi è riconosciuto dalle legislazioni nazionali di numerosi paesi e, a livello internazionale, nei procedimenti legali, nei giudizi e negli strumenti relativi ai diritti umani (11). In effetti, sembra che, per un certo numero di ragioni storiche, culturali e filosofiche, il principio dell’autonomia delle Chiese sia accettato più facilmente in Europa che in America, dal diritto e dalla pratica. Come i diritti umani generalmente lo evidenziano, la percezione che i giuristi hanno dei diritti dei gruppi religiosi e il modo in cui tali diritti sono tutelati è stata ampiamente modellata dal cristianesimo e dalla visione cristiana della persona umana, della Chiesa e dello Stato. La dichiarazione storica sulla libertà religiosa che papa Paolo VI ha fatto votare alla fine del Concilio Vaticano II è, a questo riguardo, particolarmente interessante. Essa ha confermato in modo ammirevole il diritto di ogni essere umano di praticare la propria religione in accordo con la propria coscienza. Questa dichiarazione cominciava con un’affermazione forte, e cioè che «la libertà religiosa ha il suo fondamento nella dignità della persona umana. […] Il diritto alla libertà religiosa non si fonda quindi su una disposizione soggettiva della persona, ma sulla sua stessa natura» (12). Ciò significa che il desiderio delle persone, e la loro responsabilità, di cercare la verità, trovarla e aderirvi, e, parallelamente, la loro immunità morale nei confronti di qualunque costrizione esterna in materia di coscienza religiosa, sono entrambe legate alla nostra «stessa natura». Nel 1785, James Madison faceva una dichiarazione simile nel suo celebre lavoro Memorial and Remonstrance Against Religious Assessments. Tuttavia, la dichiarazione del Vaticano II non si è fermata all’affermazione della libertà di coscienza religiosa, compresa come una «esenzione da ogni costrizione». Non si è accontentata neanche di insistere, e ha insistito, sul fatto che gli individui hanno il diritto di associarsi per motivi religiosi e di esprimere le loro credenze religiose in seno a una comunità rendendo un culto o in altro modo. È andata ancor più lontano. Il documento precisa che «i gruppi religiosi, infatti, sono postulati dalla natura sociale tanto degli esseri umani, quanto della stessa religione […]. A tali gruppi, pertanto, posto che le giuste esigenze dell’ordine pubblico non siano violate, deve essere riconosciuto il diritto di essere immuni da ogni misura coercitiva nel reggersi secondo norme proprie, nel prestare alla suprema divinità il culto pubblico, nell’aiutare i propri membri ad esercitare la vita religiosa, nel sostenerli con il proprio insegnamento e nel promuovere quelle istituzioni nelle quali i loro membri cooperino gli uni con gli altri a orientare la vita secondo   i principi della propria religione». Essi hanno «il diritto di non essere impediti con leggi o con atti amministrativi del potere civile di scegliere, educare, nominare e trasferire i propri ministri, di comunicare con le autorità e con le comunità religiose che vivono in altre regioni della terra, di costruire edifici religiosi, di acquistare e di godere di beni adeguati» (13).

Non basta dire, sottolineiamolo, che la fede e l’esperienza religiosa hanno una dimensione comunitaria. La libertà di cui devono beneficiare i gruppi religiosi non è garantita come un effetto della pratica religiosa degli individui, ma in quanto diritto morale di questi gruppi, un diritto radicato, come il diritto alla libertà religiosa in generale, nella dignità della persona e nel progetto di Dio per il mondo.

Così, la legislazione dei diritti umani, negli Stati Uniti come altrove, riconosce e tutela l’esercizio appropriato dell’autorità religiosa, l’autonomia delle istituzioni religiose e il diritto all’autodeterminazione dei gruppi religiosi. Che cosa è esattamente il principio di autonomia delle Chiese nella Costituzione americana non è completamente stabilito, ma sembra chiaro che le istituzioni, così come le persone, godono della libertà religiosa che essa garantisce. Qual è dunque la natura precisa di tale protezione? Che cosa è esattamente «l’autonomia delle chiese?» Che cosa significa, per una comunità religiosa, in termini pratici e «sul campo», il fatto di beneficiare del «diritto all’autodeterminazione»? Gerardo Bradley, specialista delle relazioni tra diritto e religione, afferma che «l’autonomia delle Chiese» è «l’argomento più importante per la Chiesa e lo Stato», la «prova del nove dell’im- pegno di un regime nell’assicurare una libertà spirituale autentica» (14). Che cosa dovrebbe fare o evitare di fare un regime desideroso di superare questa «prova» e di dare la giusta importanza a questo «argomento più importante»?

Il principio dell’autonomia delle Chiese può essere potenzialmente messo in discussione in molte situazioni e in diverse controversie. Ne citeremo solamente alcuni: la supervisione delle finanze diocesane da parte di un tribunale fallimentare o un’altra istanza amministrativa; l’obbligo per gli organismi affiliati a una Chiesa di finanziare la contraccezione dei loro impiegati, o, per i medici che lavorano negli ospedali legati a un’organizzazione religiosa, di praticare degli aborti; querele a proposito delle procedure disciplinari o dei criteri di adesione dei membri; la divisione dei beni di una Chiesa dopo un scisma o una spaccatura; l’applicazione delle leggi anti-discriminazione alle decisioni delle chiese o delle scuole religiose nei casi di assunzione o licenziamento di membri del clero e insegnanti; e i tentativi dei governi per controllare o regolamentare il modo in cui le Chiese scelgono i propri dirigenti. Questo principio non è probabilmente riducibile a una semplice «prova», anche se sembrerebbe che ci siano parecchie proposte importanti, che non si prestano a controversie, a partire dalle quali potrebbe essere stabilito un più esteso diritto all’autodeterminazione (vedere la lunga enumerazione di applicazioni specifiche presenti nella Dichiarazione del Vaticano II sulla libertà religiosa e citate in precedenza). In molti modi, la «dottrina» dell’autonomia delle Chiese è meno una regola generale che una mescolanza di opinioni o un insieme di temi il cui punto comune è uno «spirito di libertà per le organizzazioni religiose» (15). Come sappiamo, il Primo emendamento non permette l’azione dello Stato che crea o necessita una «eccessiva complicazione» tra il governo e la religione che sia a livello delle istituzioni, delle pratiche, degli insegnamenti o delle decisioni (16). Esige che «le autorità laiche e religiose […] non interferiscano reciprocamente nelle loro sfere di scelta e di influenza» (17). I giudici hanno rifiutato di «incaricarsi di risolvere le dispute [religiose]», perché «esiste sempre un rischio di impedire il libero sviluppo della dottrina religiosa e di implicare interessi profani nelle questioni di ordine puramente ecclesiastico» (18). La Corte ha confermato a più riprese il «diritto fondamentale delle Chiese di decidere da sole, senza nessuna interferenza dello Stato, sulle questioni di amministrazione ecclesiale, di fede e di dottrina» (19). E potremmo continuare.

Secondo Bradley, «l’autonomia delle Chiese» è «questione che si pone quando i principi legali sostituiscono le regole interne che sostengono le relazioni interpersonali nei gruppi religiosi». Questo principio è stato detto per precludere ogni «revisione del tribunale civile» sulle «dispute religiose interne riguardanti le questioni di fede, di dottrina, di gestione della chiesa e di amministrazione» (20). E il giudice Brennan (secondo Douglas Laycock) ha presentato l’argomento in un modo particolarmente pratico facendo osservare che l’autonomia delle organizzazioni religiose nella «regolamentazione dei loro affari interni» comprende la libertà di «scegliere i propri responsabili, di definire le loro dottrine, di risolvere le loro dispute e di gestire le proprie istituzioni» (21). Questa formulazione ben coglie l’insieme delle difficoltà che incontra la libertà delle istituzioni religiose e delle circostanze in cui sorgono.

I mezzi per tutelare i diritti dei gruppi religiosi

Ho indicato, precedentemente, che il fatto di impegnarsi apertamente a favore della libertà religiosa necessita una riflessione sul contenuto di questa libertà – cioè ciò che vogliamo preservare – e sui mezzi e i meccanismi che dobbiamo utilizzare. Finora ho cercato di mostrare che la «libertà religiosa» ha una dimensione comunitaria, collettiva e pubblica, e una privata. Riguarda e tutela i diritti delle istituzioni e quelli degli individui. In che modo questa libertà, così compresa, si può preservare e promuovere efficacemente?

C’è un modo evidente (soprattutto per gli avvocati) per questo. Oggi, difatti, la maggior parte delle comunità politiche che funzionano bene manifestano e mettono avanti il loro impegno verso i fondamentali diritti umani, ivi compresa la libertà religiosa, «incastonando» questi diritti nelle loro Costituzioni (ponendoli così, almeno in una certa misura, fuori dalla portata della politica ordinaria) e autorizzando i tribunali a dichiarare non valide le azioni dei governi e dei funzionari che sconfinano in questi diritti (22). Come abbiamo notato all’inizio di questo articolo, questo approccio si riflette nella Costituzione americana, nelle Costituzioni di altri Paesi e negli strumenti internazionali fondamentali sui diritti umani. La dichiarazione del Vaticano II sulla libertà religiosa ha sottolineato che occorre «una giuridica delimitazione del potere delle autorità pubbliche, affinché non siano troppo circoscritti i confini alla onorevole libertà, tanto delle singole persone, quanto delle associazioni». Se è un buon consiglio quello di «non accordare la nostra fiducia ai principi», sembra tuttavia logico impegnare le autorità politiche, compresa la loro branca giuridica, nell’opera di protezione dei diritti umani.

Suggerire che altri meccanismi strutturali complementari possono essere utili, o addirittura necessari, per assicurarsi della realtà della libertà religiosa non diminuisce affatto l’importanza delle disposizioni costituzionali e giuridiche concernenti i diritti umani. Proteggiamo i diritti umani non solo elencando le differenti cose che i governi non potrebbero fare, ma anche ponendo i governi in situazioni tali da essere improbabile e difficile per loro mettere in pratica queste differenti cose. Il costituzionalismo è molto più di una lunga litania di aspirazioni; è anche il desiderio di organizzare insieme le nostre vite e di promuovere il bene comune stabilendo delle categorie, separando, strutturando e limitando il potere in modo concreto e applicabile.

La Costituzione americana ce ne dà un’illustrazione che può esserci utile. Come ogni studente di diritto ha l’opportunità di imparare, almeno lo speriamo, e come Madison ha spiegato così bene in The Federalist, coloro i quali hanno elaborato e ratificato la Costituzione credevano che le libertà politiche erano servite meglio attraverso la competizione e la cooperazione tra autorità e giurisdizioni plurali, e grazie a strutture e meccanismi che controllano, diffondono e dividono il potere. La Costituzione americana è più di un catalogo di diritti. Il nostro diritto costituzionale è alla fine «il diritto che governa la struttura e la ripartizione del potere tra le diverse istituzioni del governo nazionale» (23). L’esperienza costituzionale dell’America mostra, tra le altre cose, che la struttura del governo è importante e che contribuisce al bene delle persone. Non c’è bisogno di discutere un punto tanto fondamentale come questo: «La genialità della Costituzione americana», del costituzionalismo americano, «risiede nella sua utilizzazione degli strumenti strutturali per preservare la libertà individuale» (24).

Nelle osservazioni precedenti circa «l’autonomia delle Chiese», ho affermato che la libertà religiosa, questo diritto umano verso cui ci siamo impegnati e che cerchiamo di proteggere, comprende il diritto delle istituzioni religiose di reggersi da sole e di usare la loro autorità in modo appropriato, senza ingerenze dei governi. Questo diritto, così come l’immunità della coscienza religiosa degli individui nei confronti di qualunque costrizione, rispecchia ed è radicato nella dignità della persona umana che è il fondamento della morale dei diritti umani più in generale. A ciò possiamo ora aggiungere un’altra osservazione, vale a dire che l’autonomia delle Chiese è, come il federalismo, la separazione dei poteri, l’equilibrio dei poteri e dei contropoteri, un principio strutturale la cui applicazione permette ai gruppi religiosi che beneficiano dell’autodeterminazione di giocare un ruolo strutturale. Questi gruppi sono protetti ma sono anche protettivi. Godono dei diritti alla libertà religiosa e li utilizzano per loro stessi, ma così facendo, contribuiscono a che altri ne beneficino e li esercitino a loro volta. Ciò è vero oggi, e lo è da un millennio.

Poche persone oggi hanno sentito parlare di Ildebrando, monaco dell’undicesimo secolo divenuto papa con il nome di Gregorio VII. Tuttavia, i tre giorni di penitenza da lui imposte, alla fine del mese di gennaio 1077, all’imperatore germanico Enrico IV, dopo averlo scomunicato, a Canossa, con i piedi nudi nella neve, davanti al castello della contessa Matilde di Toscana, sono stati tanto importanti per lo sviluppo del costituzionalismo occidentale quanto gli avvenimenti più tardivi di Runnymede o di Filadelfia. Ildebrando ha condotto una «rivoluzione» che, come ha dichiarato il grande giurista Harold Berman, ha portato non meno di una «trasformazione totale» del diritto, dello Stato e della società (25). Il grido di guerra di questa rivoluzione papale, l’idea che sarebbe servita da catalizzatore per quello che Berman considera come «la prima maggiore svolta della storia europea» e fondamento di un millennio di teoria politica, era libertas ecclesiae, la «libertà della chiesa» (26).

Il presente articolo non ha l’obiettivo di fare un racconto dettagliato della «lotta per le investiture», di questa rivoluzione papale e delle loro conseguenze. Basterà un breve riassunto. Bisogna cominciare da ciò che è stato, come ha sottolineato Robert Wilken, un «fatto capitale nella vita ecclesiastica all’inizio del Medioevo […], [dato che] gli affari della chiesa erano gestiti dai re e dai principi» (27). Tali autorità – che sarebbe probabilmente anacronistico qualificare come «laiche», visto il significato che questo aggettivo ha assunto oggi, non ritenevano di superare il confine tra la religione e la politica. L’imperatore stimava sicuramente che la cura dell’anima dei cristiani e il buon funzionamento della Chiesa di Cristo facesse ampiamente parte della sua funzione voluta da Dio. Tuttavia, è questo «fatto capitale» a cui mirava l’ambiziosa rivoluzione di Ildebrando. Appoggiandosi su un secolo di tentativi di riforme e di lotte contro la corruzione, e andando anche molto al di là, papa Gregorio VII, nel 1705, pronunciò una dura e sonora condanna contro  il controllo esercitato dal potere temporale sulla scelta e l’investitura dei vescovi. Indifferente (è il meno che si possa dire) alle esigenze e agli argomenti giuridici del papa, l’imperatore rispose: «Io, Enrico, re per grazia di Dio, e tutti i miei vescovi,   ti diciamo: Scendi, scendi e che tu sia dannato per l’eternità» (28).

Il confronto drammatico che seguì al castello di Canossa, dopo la scomunica di Enrico IV, non fu certo la fine del conflitto. La «lotta per le investiture» non tardò a esplodere e infuriò per parecchi decenni. Alla fine, Enrico IV nominò il suo papa, e Gregorio   VII morì in esilio, citando un versetto del salmista: «Ho amato la giustizia e ho odiato l’iniquità; ecco perché muoio in esilio». Il concordato di Worms, nel 1122, calmò la situazione per un periodo. Era una forma di compromesso, tuttavia da esso è emersa la «scienza politica occidentale, e più precisamente le prime teorie occidentali moderne sullo Stato e sul diritto secolare» (29). Come dice George Weigel: «Se gli imperatori fossero riusciti a fare della Chiesa una suddivisione amministrativa e spirituale dell’impero, si sarebbe perso ben più della libertas ecclesiae o della possibilità per la chiesa   di gestire la sua vita interna. L’opportunità di sviluppare un pluralismo istituzionale a ovest sarebbe stata persa forse o, almeno, ritardata» (30).

Sapere che Gregorio VII non è all’origine della nozione di «libertà della chiesa», principio motore della sua azione, non toglie niente al carattere «rivoluzionario» delle sue rivendicazioni e dei suoi successi. Già nel 494, difatti, papa Gelasio scriveva all’imperatore bizantino Anastasio I: «Due poteri, augusto imperatore, regnano sul mondo: l’autorità sacra del sacerdozio e il potere regale» (31). Non bisogna neanche pensare che questa idea sia minata dal fatto che poco meno di 100 anni dopo la disputa tra il papa ed Enrico IV, in Inghilterra, re Enrico II e Thomas Becket si sono scontrati quando il sovrano ha rivendicato la supremazia regale sulla chiesa, o che la posizione di Ildebrando sia stata manifestamente messa in discussione da Riforma protestante, Pace di Asburgo, Rivoluzione francese e anticlericalismo del diciannovesimo secolo.

«Bene – potremmo chiedere – e allora?». In che cosa il racconto di questi conflitti medievali tra ambiziosi imperatori e papi può servire alla nostra riflessione sulla libertà religiosa o il nostro impegno nella protezione dei diritti umani tramite la legge? In questo: la «lotta per le investiture» e la posizione aggressiva di papa Gregorio VII sulla «libertà della Chiesa» ben mostrano i legami importanti che esistono tra il pluralismo e il costituzionalismo, tra le autonomie delle istituzioni religiose e i diritti degli individui. John Courtney Murray ha studiato questi legami sotto tutti i punti di vista e li ha messi in evidenza. La dichiarazione del Vaticano II sulla libertà religiosa è il risultato delle sue riflessioni. Secondo lui, non siamo realmente liberi (nessuno di noi, credente o no, lo è veramente) se «tutto ciò che fondamentalmente fa di noi degli esseri umani non beneficia dell’immunità sacra nei confronti della profanazione a opera del potere dello Stato». Il problema che si pone da molto tempo è allora di trovare il principio limitante che permette di «controllare l’influenza del potere civile e di preservare questa immunità». Secondo lui, «la civiltà occidentale ha prima trovato questa norma nel principio ricco di senso della libertà della Chiesa». In altri termini, questo principio definisce ciò che Murray ha definito il «nuovo teorema cristiano», vale a dire che la Chiesa «si   è tenuta tra il corpo sociale e il potere pubblico, non solo limitando la portata del potere sul popolo, ma anche mobilitando il consenso morale del popolo e portandolo a fare pressione sul potere». Per Murray, è la libertà della Chiesa che ha procurato una «armatura sociale all’ordine sacro», nel cui seno la persona umana può «essere al riparo da tutte le libertà alle quali aspira il suo carattere sacro» (32). Egli credeva che «la tutela degli […] aspetti della vita contro il potere per natura “invasivo” dello Stato […] dipendeva storicamente dalla libertà della Chiesa in quanto autorità spirituale indipendente» (33).

La separazione tra Chiesa e Stato

Può sembrare strano all’inizio, ma il successo del costituzionalismo dipende dall’esistenza e dalle attività delle autorità non statali. Il costituzionalismo dovrebbe proteggere i gruppi religiosi indipendenti che funzionano e si sviluppano indipendentemente dai governi, ma di cui ha anche bisogno. È un errore dunque considerare la «religione» meramente come una pratica privata o anche come un fenomeno sociale verso cui le costituzioni rispondono o reagiscono. Al contrario, dovremmo considerare il costituzionalismo come un’impresa alla quale la libertà religiosa contribuisce. La protezione e lo sviluppo dei diritti umani dipendono   non solo dalle costrizioni poste sui governi, ma anche dalla struttura dell’ordine sociale. L’autonomia di cui le istituzioni religiose godono, per quanto riguarda le questioni di politica, la dottrina, la leadership, e l’appartenenza contribuisce a (anche se beneficia di) tale struttura. L’autonomia di cui i gruppi religiosi godono, per quanto riguarda la loro amministrazione, le dottrine, i dirigenti e i membri, contribuisce a questa struttura, anche se ne trae pure beneficio.

Tutto ciò permette di mostrare in che modo la «separazione tra Chiesa e Stato» è un sostegno per la libertà religiosa, cosa questa creduta da molti ma negata da tanti altri con altrettanta forza. Certamente, negli attuali dibattiti pubblici, questa «separazione» è spesso considerata dai suoi avversari e da numerosi dei suoi sedicenti difensori come una politica che esige che «lo spazio pubblico» sia sgomberato da qualunque espressione religiosa, simbolo e attivismo religioso. Spesso si pensa, o si teme, che la separazione tra Chiesa e Stato imponga ai credenti di considerare la loro fede come una questione rigorosamente privata e di fare una distinzione totale tra gli impegni religiosi e la vita pubblica o le loro opinioni sul modo in cui la società deve essere organizzata. Vista da questa prospettiva, la separazione tra Chiesa e Stato permette, all’occorrenza, di proteggere i diritti umani vincolando i credenti e i gruppi religiosi e riducendo il rischio di conflitti sociali e di persecuzioni.

Vi è un altro modo, molto migliore, di vedere le cose. La «separazione tra Chiesa e Stato», quando è ben compresa, è un dispositivo strutturale in cui le istituzioni religiose sono distinte, differenti e completamente indipendenti dalle istituzioni governative. È un principio di pluralismo, di autorità molteplici e sovrapposte, di lealtà e richieste in competizione. È una regola che limita lo Stato, creando così e proteg- gendo uno spazio sociale in cui gli individui sono formati e istruiti, e senza la quale la libertà religiosa è vulnerabile. Compresa in tal modo, questa «separazione» non   è un’ideologia antireligiosa, ma una componente importante di ogni valida concezione della libertà religiosa sotto e attraverso un governo costituzionalmente limitato. Papa Benedetto XVI ha riaffermato che la «distinzione tra ciò che è di Cesare e ciò che è di Dio, […] vale a dire tra Stato e Chiesa, appartiene alla struttura fondamentale del cristianesimo» (34). In modo analogo, ha sottolineato che è il cristianesimo ad aver «introdotto l’idea della separazione tra Chiesa e Stato nel mondo. Fino ad allora, l’organizzazione politica e la religione erano sempre unite. In tutte le culture, lo Stato sacro in sé è il protettore supremo della sacralità». Tuttavia, il cristianesimo «ha privato lo Stato della sua natura sacra […]. In ciò, ha insistito, la separazione è innanzitutto un’eredità cristiana primordiale» (35).

Conclusione

Le Chiese e gli altri gruppi religiosi beneficiano, come deve essere, di un’ampia libertà che permette loro di organizzare, dirigere e gestire da soli i propri affari in accordo con gli insegnamenti e le dottrine che sono loro proprie. Come ho già affermato, non solo questa libertà beneficia delle leggi sui diritti umani, e più in generale del costituzionalismo, ma vi contribuisce anche. Ribadito ciò, è evidente che i principi e le premesse dell’autonomia della Chiesa sono vulnerabili e sono oggetto di attacchi in determinati contesti. Il diritto è una realtà, ma il suo campo di applicazione e i suoi fondamenti sono sempre più contestati.

Tale vulnerabilità è dovuta sicuramente al legame che talvolta si stabilisce, e che molti percepiscono, tra il principio dell’autonomia della Chiesa, da un lato, e gli abusi sessuali e la corruzione del clero, la venalità e la cattiva amministrazione dei vescovi o i fallimenti delle diocesi, dall’altro. Molto spesso, le persone che criticano il diritto all’autodeterminazione dei gruppi religiosi non lo comprendono bene, non più del principio di autonomia della Chiesa. Secondo loro, ipotesi inverosimile e dannosa, questi diritti mettono le Chiese e il clero, in qualche modo, «sopra le leggi»: le une e le altre non hanno da rendere conto a nessuno per gli errori che commettono o per il male che causano. Inoltre, la libertà delle organizzazioni, delle istituzioni e dei gruppi religiosi è resa anche precaria a causa dell’indebolimento della nozione di «autorità» religiosa nel discorso contemporaneo. Nella misura in cui si considera che il principio di autonomia delle Chiese privilegi le istituzioni rispetto agli individui, le strutture rispetto ai credenti, la sua portata diminuisce, poiché le persone tendono a pensare la fede (e, per estensione, la libertà religiosa) in termini più di spiritualità personale che di affiliazione istituzionale, di culto pubblico e di tradizioni. Nella misura in cui consideriamo la fede religiosa come una forma di espressione, di compimento di sé, o una terapia, tendiamo a considerare le istituzioni religiose, nel migliore dei casi, come gli strumenti potenzialmente utili e, più probabilmente, come le costrizioni soffocanti e degli ostacoli imbarazzanti per la scoperta di sé. Ma questo sarebbe, tuttavia, un errore.

 

RICHARD W. GARNETT – Professore di diritto e vice-decano presso la facoltà di diritto dell’Università di Notre Dame, aggregato superiore del Centro studi Emory sul diritto e la religione dell’università Emory. Una prima versione di questo articolo è stata pubblicata nel lavoro di John Witte Jr. e Frank Alexander, Christianity and Human Rights: Un Introduction ed. Cambridge University Press, Cambridge, 2010. Pubblicato qui con il permesso dell’autore e dell’editore. Articolo edito in Coscienza e Libertà 45/2011.

NOTE

1 I. Dilliard (a cura di) The Spirit of Liberty. Papers and Addresses of Learned Hand, Knopf, New York, 1952, pp. 189-190.

2 J. C. Murray, We Hold These Truths: Catholic Reflections on the American Proposition, Rowan & Littlefield Publishers, Lanham, MD, 2005, pp. 186-190. Testo consultabile su http://woodstock.georgetown.edu/library/murray/whtt_index.htm

3 Idem, p. 186.

4 M. A. Glendon, Rights Talk: The Impoverishment of Political Discourse, Free Press, New York, 1991.

5 F. Schauer, «Principles, Institutions, and the First Amendment», in Harvard Law Review, vol. 112, 1998, pp. 84, 110. Consultabile su www.law.harvard.edu/faculty/martin/art_law/schauer.htm   6 T. L. Shaffer, «Human Nature and Moral Responsibility in Lawyer-Client Relationships», in American Journal of Jurisprudence, vol. 40, 1995, pp. 1, 2.

7 C. S. Lewis, The Weight of Glory and Other Addresses, Macmillian Publishers, 1980, p. 19.

8 J. C. Murray, Op. cit., p. 80. (p. 70 nella versione disponibile su Internet. Cfr. nota 2).

9 Kedroff v. St Nicholas Cathedral, 344 US 94, 1952, p.119.

10 Brett Scharffs ha notato tuttavia che, almeno nel contesto della Corte europea dei diritti umani, «le istituzioni religiose non hanno diritti che sono loro propri, ma beneficiano solamente dell’insieme dei diritti dei loro membri». B. G. Scharffs, «The Autonomy of Church and State», in Brigham Young University Law Review, 2004, pp. 1217-1348, più precisamente pp. 1277-78.

11 Vedere, per esempio, il lavoro di G. Robbers, Church Autonomy,: A Comparative Survey, Peter Lang, Frankfurt am Main, New York, 2001. Come ha notato John Witte, il principio dei «diritti dei gruppi religiosi» è «riconosciuto da molti come una norma di base delle leggi internazionali […]»; J. Witte, «Introduction: The Foundations and Frontiers of Religious Liberty» in Emory International Law Review, vol. 21, 2007, pp. 1-9.

12 Papa Paolo VI, Dottrina generale sulla libertà religiosa, (Dignitatis humanae), § 2, 1965. ttp:// www.vatican.va/archive/hist_councils/ii_vatican_council/documents/vat-ii_decl_19651207_di- gnitatis-humanae_it.html

13 Idem, § 4.

14 G. V. Bradley, «Forum Juridicum,: Church Autonomy in the Constitutional Order», in Louisiana Law Review, vol. 49, 1989, pp. 1057-1087, più precisamente p. 1061.

15 Kedroff, Op. cit., p. 116.

16 Lemon v. Kurtzman, 403 US 602, 1971, pp. 613-14.

17 L. H. Tribe, American Constitutional Law, 2a ed., Foundation Press, Mineola, New York, 1988, § 14-12, in particolare p.1226.

18 Presbyterian Church v. Mary Elizabeth Blue Hull Mem’l Presbyterian Church, 393 US, 440, 449,1969.

19 Eeoc v. Catholic Univ. of America, 83 F.3d, 455, 462, DC Cir. 1996, (che cita Kedroff, 344 US, p. 116).

20 Bryce v. Episcopal Church in the Diocese of Colorado, 289 F.3d   648, 655, 10th Cir. 2002.

21 Corporation of Presiding Bishop v. Amos, 483 US 327, 341-42, 1987 (Brennan, J., opinione individuale), che cita D. Laycock, «Towards a General Theory of the Religion Clauses: The Case of Church-Labor Relations and the Right to Church Autonomy», in Columbia Law Review, vol. 81, 1981, pp. 1373-1417, più precisamente p. 1389.

22 M. J. Perry, Constitutional Rights, Moral Controversy, and the Supreme Court, Cambridge University Press, Cambridge/New York, 2009, pp. 23-30.

23 G. Lawson, «Prolegomenon to Any Future Administrative Law Course: Separation of Powers and the Transcendental Deduction», in St Louis University Law Journal, vol. 49, 2005, p. 885.

24 S. G. Calabresi e K. H. Rhodes, «The Structural Constitution: Unitary Executive, Plural Judiciary», in Harvard Law Review, vol. 105, 1992, pp.1153, 1155.

25 H. J. Berman, Law and Revolution: The Formation of the Western Legal Tradition, Harvard Universi- ty Press, Cambridge, Mass., 1983, p. 23. (Versione francese: Droit et révolution, Éd. de la Librairie de l’Université d’Aix-en-Provence, 2002).

26 Idem, p. 87.

27 R. L. Wilken, «Gregory VII and the Politics of the Spirit», in R. J. Neuhaus, ed., The Second One Thousand Years: Ten People Who Defined a Millennium, (Grand Rapids, MI: Wm, B. Eerdmans, 2001), p. 6.

28 H. J. Berman, Op. cit, p. 96.

29 Idem, p. 111.

30 G. Weigel, The Cube and the Cathedral: Europe, America, and Politics Without God, Basic Books, New York, 2005, p. 100. (Versione francese: Le Cube et la Cathédrale – L’Europe, l’Amérique et la politique avec ou sans Dieu, La Table Tonde, Paris,, 2005.)

31 Il testo di questa lettera è consultabile sul sito http://www.fordham.edu/halsall/source/gelasius1.html. Di questo passo sui «due poteri», John Witte dice che è un «testo classico su cui in seguito si sono appoggiate numerose teorie sulla separazione tra il papa e l’imperatore, il clero e i laici, regnum et sacerdotium». J. Witte, Religion and the American Constitutional Experiment, 2a ed., Westview Press, Boulder, Colorado, 2005, p. 6.

32 H. C. Murray, Op. cit., p. 204-205.

33 F. Canavan, S.J, «Religious Freedom: John Courtney Murray, S.J. and Vatican II», in Faith and Reason, vol. 8, estate 1987, ripreso in R. P. Hunt e K. L. Grasso, ed., John Courtney Murray and the American Civil Conversation, Eerdmans, Grande Rapids, MI, 1992, p. 167-180.

34 Papa Benedetto XVI, Deus caritas est, § 28(a) 2005. (Testo italiano consultabile su: http://w2.vatican.va/content/benedict-xvi/it/encyclicals/documents/hf_ben-xvi_enc_20051225_deus-ca- ritas-est.html)

35 J. Ratzinger, The Salt of the Earth: The Church at the End of the Millennium, Ignatius Press, San Francisco, 1997, p. 238, 240. (Versione francese: Le sel de la terre, Flammarion, Parigi, 1997).

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