Nell’indifferenza più o meno generale, i gruppi religiosi sono vittime di diffamazione. Questo lato del diritto e delle relazioni sociali è, tuttavia, poco menzionato. Quando una organizzazione religiosa è sospettata di avere una prassi incompatibile con il diritto, la morale o una presunta tradizione, diventa oggetto di diffamazione. Eppure, nonostante le varie sentenze della Corte europea dei diritti umani (CEDU), la diffamazione dei gruppi religiosi persiste. La Francia si è particolarmente distinta in questo senso. Ora la giurisprudenza europea ha introdotto un nuovo quadro che limita il diritto interno. Il nostro contributo è quello di tentare di dimostrare che questa tendenza è più coerente con la realtà sociale. Per questo ricordiamo la recente giurisprudenza e metteremo in evidenza gli effetti sulla costruzione giuridica della diffamazione. Successivamente, vogliamo sottolineare che la prospettiva della CEDU può essere letta alla luce dell’approccio sociologico della stigmatizzazione. Ciò porterà a indicare che la Corte Europea si oppone agli approcci semplicistici della «normalità» che espongono i gruppi religiosi alla stigmatizzazione sociale, di cui la diffamazione è una forma di espressione.

Il diritto francese e la nuova giurisprudenza della Corte Europea

I parametri di riferimento del diritto francese

Nel diritto francese, la diffamazione è un reato definito come tale dalla Legge sulla libertà di stampa del 29 luglio 1881, articolo 29, comma 1: «Ogni accusa o imputazione di un fatto che mette a repentaglio l’onore o la considerazione della persona o dell’ente a cui l’atto viene attribuito è una diffamazione. La pubblicazione diretta o attraverso la riproduzione di tale accusa o di tale imputazione è punibile, anche se fatta sotto forma dubitativa o se riguarda una persona o un ente non specificamente nominati, ma la cui identificazione è resa possibile da discorsi, urla, minacce, cartelli scritti o stampati o manifesti». L’intenzione è presunta colpevole (L. 19 luglio 1881, art. 35bis). Spetta all’autore e/o al diffusore di dichiarazioni palesemente diffamatorie provare la propria buona fede, dimostrando: a) che disponeva di elementi probanti che sostenevano la sua argomentazione per credere alla verità dei fatti indicati; b) che non intendeva fare del male, ma informare; c) che il danno subito, l’alterazione dell’immagine del gruppo calunniato, è proporzionato; d) che aveva preso delle precauzioni per evitare la diffamazione. Parlare di diffamazione è quindi, alla luce di questi criteri del diritto, considerare un impatto negativo sull’immagine di un gruppo o di una pratica religiosa come risultato di un’azione  deliberata.

La nuova giurisprudenza della Corte europea

Con la sentenza Paturel del 22 dicembre 2005, la Corte europea ha modificato questo quadro ben consolidato. Christian Paturel, nel suo libro Sette, religioni e libertà civili, metteva fortemente in causa l’UNADFI, una delle associazioni francesi leader nella lotta contro le sette. I giudici francesi avevano applicato i criteri tradizionali per la diffamazione. Tuttavia, la Corte non ha seguito le conclusioni della giurisdizione interna. Essa sottolinea che i giudici francesi avevano trascurato dei documenti forniti dall’autore per difendere i passaggi controversi. D’altra parte, la giurisdizione interna opponeva nei confronti della ricorrente, nella sua qualità di membro di un’organizzazione qualificata come «setta» dall’UNADFI, l’assenza di pregiudizi e di ostilità personale contro l’UNADFI.

Per la Corte europea, il libro è parte di un dibattito pubblico basato esclusivamente su giudizi di valore. Secondo la Corte, non si può imporre in questo caso l’obbligo di verifica scrupolosa dei fatti. «La Corte mette così in causa l’inadeguatezza di alcuni criteri della diffamazione in determinati contesti» (1). In altre parole, la Corte riequilibra i rapporti di forza in un dibattito sulle sette in cui i valori si intersecano, si combattono più di quanto lo stabiliscano oggettivamente i fatti.

Questa sentenza da parte della Corte europea impatta direttamente sulla costruzione giuridica del concetto di diffamazione e su una storia antica. In Francia, la diffamazione è stata codificata nel quadro della libertà di espressione della stampa. Questo contesto è ora in tensione con la nuova giurisprudenza. Possiamo, s’interroga Patrice Rolland, avere le stesse esigenze verso dei profes- sionisti che elaborano l’informazione e i cittadini che si appropriano di un tema   di dibattito pubblico? Nel caso Paturel, la Corte ha osservato che le indagini dell’autore si fondano su «una base di fatto non esistente», e si iscrivono in un dibattito pubblico aperto a tutti.

La Corte insiste sul concetto di dibattito pubblico che è una struttura particolare per stabilire la diffamazione. Secondo la giurisprudenza della Corte, si è nel dibattito pubblico in quanto è una questione dibattuta nello «“spazio pubblico” e la persona fisica o giuridica è attiva nel settore pubblico: le associazioni possono essere coinvolte in settori di interesse pubblico, un politico che, a differenza di un privato, si espone inevitabilmente e coscientemente a un rigoroso controllo delle sue azioni sia da parte dei giornalisti sia dalla massa dei cittadini» (2).

Il ricorso al concetto di dibattito pubblico non dovrebbe invitare agli eccessi. Nella causa Giniewski contro Francia in materia di negazione dell’Olocausto, la Corte ha rilevato, nella sua sentenza del 31 gennaio 2006, il limite che «l’importanza di una base reale». Pertanto, la giurisprudenza europea sottolinea l’esistenza di elementi che non possono essere messi in discussione, vale a dire, «fatti storici chiaramente stabiliti». La Corte affermava già, con la sentenza Garaudy del 24 giugno 2003, che «la contestazione di crimini contro l’umanità sembra essere una delle forme più gravi di diffamazione razziale verso gli ebrei e di incitazione all’odio nei loro confronti». Allo stesso modo, la Corte riconosceva una tensione tra l’offesa e il diritto di esagerazione in particolare in termini di caricature religiose fatte dai giornalisti. È anche attenta a preservare il pluralismo delle opinioni in una società democratica, anche in materia religiosa. Questa è stata la lezione principale della sentenza della Corte europea nel caso di Aydin Tatlav contro la Turchia.

Il breve richiamo non esaustivo della giurisprudenza della Corte europea sulla nozione di diffamazione dimostra un’evoluzione. Non siamo più solo nella semplice verifica dei vecchi criteri. I concetti di dibattito pubblico, di interesse generale, di libertà di espressione, di pluralismo o di giudizio di valore rendono sempre più complesso il concetto di diffamazione. Questo è particolarmente vero in materia religiosa dove si contrappongono il diritto all’esagerazione e la nozione di offesa. La complessità della giurisprudenza europea non deve fare scomparire, agli occhi dell’osservatore, un punto di ancoraggio che è la stigmatizzazione. L’attuale giurisprudenza dimostra che i giudici sono sempre più sensibili a verificare che non vi sia alcuna stigmatizzazione sociale che strutturi l’intenzione di chi diffama. Su questo punto, è particolarmente importante stabilire il concetto di stigmatizzazione. Le conclusioni della sociologia della devianza permettono di capire perché, nonostante la vigilanza dei giudici, la religione è oggetto di diffamazione.

Stigmatizzazione sociale e diffamazione

È importante per i sociologi capire che cosa stia succedendo nella costruzione giuridica della struttura sociale di diffamazione. In altre parole, non possiamo considerare la nuova giurisprudenza della Corte europea come distaccata dalle costrizioni sociali che codificano l’atto di   diffamazione.

Prima di diventare un atto riconosciuto giuridicamente, la diffamazione deriva dall’ordine sociale. Si tratta di una forma di coercizione nei confronti di un gruppo. Significa stigmatizzare socialmente un individuo o un gruppo per escluderlo. Erving Goffman, nel suo libro Stigmatizzazione (3), la classifica in tre tipi. Il primo comprende le mostruo- sità del corpo (difformità); il secondo, le tare caratteriali (mancanza di desiderio o passione, rigidità, disonestà, ecc., in un individuo di cui si sa che appartiene a un gruppo socialmente indebolito da stereotipi come, ad esempio, i tossicodipendenti, gli omosessuali, i disoccupati) e l’ultimo, che ci riguarda direttamente, è costituito da stigmatizzazioni tribali. «Sono razza, nazionalità e religione che possono essere trasmessi di generazione in generazione e contaminare anche tutti i membri della famiglia» (4). Ma non bisogna sbagliare. Se ci sono diverse forme di stigmi, l’obiettivo della stigmatizzazione è quello di distinguere i normali dagli anormali.

Già nella prefazione al suo libro, Goffman si riferisce alla stigmatizzazione come la situazione di un individuo e, per estensione, di un gruppo sociale che qualcosa squalifica e impedisce di essere pienamente accettato dalla società. Questa squalifica ha un effetto morale per Goffman perché, secondo lui «è ovvio che, per definizione, noi [i normali] crediamo che una persona con uno stigma non sia necessariamente umana». Inoltre, i gruppi sociali più esposti alla diffamazione sono quelli che coltivano il desiderio di sfuggire alle norme sociali. Così i normali stigmatizzano coloro che «sembrano impegnati in un rifiuto collettivo dell’ordine sociale. Sono loro che sembrano disprezzare le opportunità per avanzare nelle vie aperte dalla società; loro che mancano palesemente di rispetto ai loro superiori; loro, gli empi; loro, i falliti della società per quanto riguarda le motivazioni che essa propone» (5).

L’osservazione di Goffman è l’inverso della logica giuridica del diritto francese. In questa tradizione, la diffamazione si applicava, prima della nuova giurisprudenza della CEDU, a coloro che avevano l’intenzione di danneggiare l’immagine di un gruppo o di un individuo. Paradossalmente, la stigmatizzazione spesso colpisce individui che si suppone abbiano una volontà specifica, una volontà di sfuggire ai quadri stabiliti. Socialmente, la stigmatizzazione si basa su un presunto intento di nuocere all’equilibrio sociale. È l’opposto della logica giuridica che cercava l’intenzionalità negativa da parte degli autori della diffamazione. Al contrario, l’intenzionalità deviante, presunta presso gli stigmatizzati, sarà sufficiente per giustificare la diffamazione nella vita sociale.

Con la sentenza Paturel, la Corte rifiuta di considerare che bisogna solo fare da eco a una ricerca di intenzionalità negativa. Un individuo ha il diritto, soprattutto quando coinvolto in un dibattito fatto di giudizio di valore, di impegnarsi in quest’ultimo. Che cosa si rimprovererà al diffamato? Il desiderio di distinguersi da norme sociali, spesso con poca discrezione. È questa scelta che interroga nuovamente la società sulle sue norme, che è problematica. Non possiamo considerare un gruppo o un individuo come diffamatori perché hanno una prospettiva diversa sulle norme sociali e prendono posizione in un dibattito che li coinvolge. In questo senso, la Corte non si configura come arbitro delle discussioni, ma come garante del loro buon comportamento.

Ma tutti i gruppi che si discostano dalla norma non sono soggetti a diffamazione. Su questo punto, Goffman fa una distinzione. Ci sono degli «emarginati tranquilli» che vivono in un’anomalia senza compromettere le norme e le certezze sociali. Al contrario, dei gruppi e delle pratiche religiose diffamati per la loro semplice esistenza, sono dei rimproveri nei confronti dei comportamenti e delle convinzioni della maggioranza degli individui. È più facile stigmatizzare quelle organizzazioni che pongono la pertinenza delle questioni che sollevano. Ci si interroga sull’identità dei gruppi diffamati soprattutto quando essi assumono la loro individualità, l’esprimono e si oppongono alle norme prevalenti condivise da una maggioranza e ciò anche se il più delle volte non manifestano nessun rischio di disordine (6).

L’approccio di Goffman implica che la stigmatizzazione sociale e una delle sue conseguenze, cioè la diffamazione, si basano su uno sguardo complesso del concetto di normalità. Esso tende a indicare che i diffamati non sono normali.     Su questo punto, l’analisi di Goffman è simile, e l’autore l’assume, agli studi sulla devianza. La stigmatizzazione non è altro che una caratterizzazione negativa di gruppi o di individui ritenuti devianti. Ma, ancora, bisognerebbe intendersi sul concetto di normalità (7).

Stigmatizzazione, diffamazione e normalità

Nel 1963, anno di uscita del lavoro di Goffman, il suo collega Howard Becker ha pubblicato uno studio sulla devianza e sulla normalità. Il libro, Outsiders, è diventato un altro classico. Becker, formato come Goffman nella famosa Scuola   di Chicago, condivide con lui l’intuizione che dovremmo analizzare i gruppi e gli individui devianti per capire indirettamente la normalità. È dunque per riflesso, indirettamente, che la normalità è affrontata. Becker pratica i metodi di studio dell’etnografia ed è coinvolto nell’esperienza dei gruppi marginali, gli outsiders, che studia. Questo sguardo gli permette di registrare un triplice approccio al concetto di normalità.

In primo luogo, «il concetto più semplice di devianza è essenzialmente statistico: è deviante ciò che si discosta troppo dalla media» (8). La norma sarebbero i comportamenti più comuni nella vita sociale. Questa definizione è poco operativa per Becker in quanto tutti i comportamenti non sono stigmatizzati o diffamati semplicemente perché sono espressione di una minoranza.

Il secondo concetto, fatto di analogie mediche della devianza e della normalità, è   più diffuso. «Esso ritiene la devianza come qualcosa di essenzialmente patologico, che deriva dalla presenza di un “male”» (9). Coloro che sono qualificati come devianti sono considerati come una malattia, come portatori di pratiche che debbono essere combattute. Essi sarebbero la causa delle disfunzioni sociali. In questo caso, la stig- matizzazione di determinati gruppi e di pratiche religiose tende a inserire i religiosi nell’anormale, nell’indesiderabile, nel patologico; in una parola, nella devianza. Il modo in cui la politica francese tratta i gruppi e le pratiche religiose deriva da questa visione. La lotta contro i comportamenti settari ne è un esempio. Jean Baubérot ricorda che lo Stato ha il diritto di organizzare le espressioni religiose. Egli osserva che il gioco democratico impone che vi sia la presenza di sostenitori od oppositori della religione. L’anomalia per Jean Bauberot arriva in Francia da uno Stato che prende posizione in questo gioco, sostenendo azioni anti-religiose, destabilizzando così il concetto di laicità e allontanandosi dalla posizione di equità che da esso si ha il diritto di aspettarsi. Questa scelta è senza dubbio il risultato di una visione patologica della religione, soprattutto di minoranza, che domina oggi (10). Le cause Brard, dal nome del deputato francese condannato per i suoi atteggiamenti nei confronti delle sette, spiegano questo sguardo patologico. In Francia, più in generale, la lotta contro il settarismo si concepisce come una lotta purificatrice della società condotta contro i gruppi e le organizzazioni religiose.

L’ultimo concetto di devianza è il fallimento di obbedienza alle norme sociali. Qui la diffamazione può essere concepita come una sanzione sociale inflitta a un gruppo considerato come deviante. Questo approccio obbliga a vedere il gruppo deviante, stigmatizzato, vilipeso, come uno spazio composto da attori razionali. Essi optano per uno stile di vita, credenze e pratiche che considerano migliori di quelli della società globale. È quindi un rifiuto della normalità statistica. Si noti che questa scelta non è percepita come una minaccia per l’intera società, in contrasto con la rappresentazione patologica criticata da Becker. «Da questo punto di vista, la devianza non è una qualità dell’atto commesso da una persona, ma piuttosto una conseguenza dell’applicazione, da parte di altri, di regole e sanzioni a un “trasgressore”» (11). La diffamazione religiosa, in linea con Becker, non sarebbe che una sanzione inflitta a una tradizione, a pratiche religiose o a gruppi percepiti come troppo lontani dalle aspettative dei «normali».

La stigmatizzazione e la diffamazione che può causare sono il risultato di una concezione di normalità che unisce i tre concetti che Becker ha ricordato. Gruppi, tradizioni e pratiche religiose sono spesso particolarmente vulnerabili. È ciò che afferma, con un linguaggio diverso, Jean-Paul Willaime a proposito del dibattito sulle sette (12): «Nella rappresentazione sociale attuale, il termine setta serve a designare, squalificandola, la religione dell’altro e il religioso altro». Egli aggiunge che un gruppo religioso può essere descritto come «setta», perché è sconosciuto o poco noto, ultra-minoritario, esigente verso i suoi membri, perché ha in sé un’autorità carismatica rivestita da una persona o che si isola dalla società nel suo insieme e/o fa proselitismo. La presenza di uno o più di questi criteri giustifica spesso il termine «setta». Infatti, dobbiamo aggiungere che il religioso considerato «anormale» è più probabile che sia diffamato perché sfugge alle rappresentazioni della maggioranza. È uno degli effetti illusori delle norme sociali.

Ricordiamo che le norme sociali sono parte di un ambiente sociale. È appoggiandoci su queste che entriamo in relazione e codifichiamo i nostri comportamenti. Ma questa codificazione è il consolidamento di un incontro tra i concetti prestabiliti e la realtà. Esiste un divario tra la griglia di lettura prestabilita e il comportamento obiettivo. Il risultato è una identità virtuale, fabbricata dall’osservatore e da lui applicata all’osservato, che è più o meno lontana dalle caratteristiche misurabili, vale a dire la vera identità. La stigmatizzazione è per Gauffman una tensione «un disaccordo tra identità sociali virtuali e reali». La diffamazione religiosa può, all’interno di questa continuità, essere considerata come un’alterazione dell’immagine mediata di un gruppo, di una pratica, di una tradizione o di una persona per motivi religiosi, basata esclusivamente sull’identità virtuale. La vera identità del diffamato viene schiacciata dall’identità virtuale costruita da parte di coloro che si considerano normali. Quindi è un atto sociale particolarmente lesivo. Becker aggiunge che la diffamazione tocca i gruppi che assumono una identità reale opposta alle aspettative sociali. In questo, non c’è nessun errore circa l’identità del gruppo. Semplicemente non è accettata.

Conclusione

Le sentenze della Corte mostrano che i giudici, anche se non parlano della nozione di normalità, non vogliono leggere il religioso in categorie passionali che non sono fedeli alla realtà sociale.

Andando oltre i tradizionali criteri che stabiliscono la diffamazione, che integrano il concetto di dibattito pubblico, riconoscendo al diffamato il diritto di partecipare ai dibattiti di valore che lo riguardano, la Corte fa notare infine che non ci sono costruzioni statistiche e patologiche della normalità. Essa, senza farvi riferimento, raggiunge le analisi della sociologia e sembra consapevole del fatto che la diffamazione sia un’estensione della stigmatizzazione sociale. Per riprendere i termini della psicologia sociale, la Corte Europea lotta contro la psico-oncogenesi. Ricordiamo che il benessere psico-oncogenetico è, tra le altre cose, una propensione a fare dei gruppi vulnerabili la causa dei mali sociali. Così, durante le grandi epidemie, crisi o gravi fenomeni inspiegabili, vediamo che sono gli emarginati, gli stranieri, le minoranze, i gruppi religiosi di minoranza o ancora gli ebrei a   essere stigmatizzati come causa del male. La psico-oncogenesi designa un nemico comune, sulla base di fantasmi, in una indifferenza e spesso in un accordo generale. Vegliare affinché i gruppi religiosi non siano diffamati facendo evolvere la giurisprudenza e rifiutando un approccio delle norme sociali favorevoli alla stigmatizzazione fa della Corte Europea uno strumento che può essere efficace   sul piano giuridico contro la diffamazione. Tuttavia, non bisogna dimenticare che le sentenze della Corte sono sconosciute al grande pubblico. Quest’ultimo è più ricettivo ed esposto alle diffamazioni. Ed è sporadicamente a conoscenza di una sentenza a favore dei gruppi religiosi, emessa lontano dai rumori mediatici prevalenti al momento della stigmatizzazione e della diffamazione. In realtà, l’opinione pubblica è sensibile all’adagio «non c’è fumo senza fuoco» che fa dei gruppi religiosi organismi perennemente vilipesi, nonostante le sentenze della Corte. Questa costante rende «normale», agli occhi di molti, la diffamazione di gruppi religiosi. Ciò porta a sottolineare l’importanza delle sentenze della Corte a favore dei gruppi religiosi e la loro copertura mediatica per l’equilibrio del gioco democratico. Nel caso francese, la lettura dominante della laicità come spazio sterilizzato dalla religione, lontano dalla realtà storica e giuridica di questo concetto, non fa nulla nella lotta contro la diffamazione religiosa.

 

FABRICE DESPLAN – Sociologo e antropologo della religione, Groupe, Sociétés, Religions et Laïcités, Parigi. Articolo edito in Coscienza e Libertà 44/2010.

NOTE

1 «Sectes, liberté de religion et liberté d’expression: l’arrêt Paturel du 22 décembre 2005», in P. Tavernier (a cura di), La France et la Cour européenne des droits de l’homme. La jurisprudence en 2005, Bruylant, Bruxelles, 2006, p.131-140. Cfr. anche P. Rolland, La critique, l’outrage et la blasphème, Dalloz, 2005, n. 20, p.1326.

2 P. Rolland, Op. cit, 2006, p. 133, 134.

3 E. G. Stigmate. Les usages sociaux des handicaps, Edizioni Minuits, Paris, 1975. Tradotto dall’inglese Stigma, Chicago, Prentice-Hall, 1963.

4 Idem, p. 14.

5 Idem, p. 167.

6 Per ampliare la riflessione su questo punto, cfr. R. Dericquebourg, «Stigmates, préjugés, discrimi- nation dans une perspective psychosociale», in Bulletin du Cesere, n. 9, 1988-1989. Pubblicato nel 1990.

7 Per ampliare la rifleessione su questo punto, cfr. R. Dericquebourg, idem.

8 H. S. Becker, Outisders. Études de sociologie de la déviance, Le Métaillé, Paris, 1985. Tradotto dall’inglese Outsider, The Free Press of Glencoe, p. 28.

9 Idem, p. 29.

10 J. Baubérot, L’intégrisme républicain contre la laïcité, La tour d’Aigle, l’Aube, 2006. Vedere anche Baubérot, Laïcité 1905-2005, entre passion et raison, Le Seuil, Paris, 2004.

11 E. G. Stigmate, Op. cit., pp. 32, 33.

12 J. P. Willaime, «Les définitions sociologiques de la secte», in F. Messner, Les sectes et le droit en France, Puf, Paris, 1999, pp.   21-46.

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