Il punto di partenza per chiunque voglia discutere di multiculturalismo in questo momento storico è la constatazione che il fenomeno di cui si sta occupando non attraversa un periodo di fioritura. «Morte», «fine», «crisi», «backlash», «tramonto» sono i termini associati di frequente al multiculturalismo. A mio avviso, come sosterrò in questo breve scritto, il discorso sulla fine del multiculturalismo non corrisponde a realtà per quanto riguarda le politiche pubbliche multiculturali. Inoltre, l’alternativa proposta, vale a dire il cosiddetto liberalismo muscolare, è estremamente problematica.

Sembrano passati molti anni, e in realtà era solo il 1997, da quando sulle riviste accademiche si discuteva sul libro We Are All Multiculturalists Now di Nathan Glazer. In questa opera, lo studioso americano sosteneva che tutti erano oramai a favore del multiculturalismo, soprattutto nell’ambito delle politiche educative. Nello stesso periodo, precisamente nel 1999, il filosofo canadese Will Kymlicka parlava convintamente del trionfo del multiculturalismo nelle democrazie occidentali. Non c’erano dubbi sul fatto che le politiche multiculturali stessero attraversando un periodo di espansione e che l’opinione pubblica avesse un atteggiamento generalmente positivo nei confronti delle politiche di accomodamento della diversità culturale. Inoltre, i fautori del multiculturalismo erano riusciti a ridefinire i termini del dibattito pubblico fino al punto che nessuno poteva ragionevolmente assumere come un dato immodificabile il fatto che la giustizia dovesse essere cieca alle differenze culturali.

Tuttavia, nel nostro continente, il trionfo del multiculturalismo ha avuto vita effimera. Sono quasi 15 anni (lo spartiacque è ovviamente rappresentato dall’11 settembre 2011) che sia gli studiosi sia i giornalisti si interrogano sulla sua fine. Sembrerebbe che, contrariamente ai propositi dei fautori del multiculturalismo, le politiche di accodamento della diversità culturale abbiano prodotto una società disgregata, in cui le minoranze, soprattutto quelle di religione islamica, anziché integrarsi vivono in ghetti separati e distinti dalla comunità politica che le accoglie.

In estrema sintesi, seguendo Steven Vertovec e Susanne Wessendorf (The Multiculturalism Backlash, 2010), è possibile riassumere il discorso sulla fine del multiculturalismo in sette punti:

  1. Il multiculturalismo è un’ideologia immutabile, addirittura un dogma che impone alle minoranze di non integrarsi;
  2. Il multiculturalismo, inteso come ideologia di stato, soffoca il dibattito poiché impone un atteggiamento di political correctness che impedisce di discutere di questioni come l’immigrazione in termini concreti;
  3. Il multiculturalismo ha alimentato la separazione tra maggioranza e minoranze etniche, consentendo a queste ultime di vivere vite parallele anziché integrarsi;
  4. Il multiculturalismo impedisce alle minoranze di avere una vita in comune con gli altri gruppi e, anzi, alimenta i conflitti etnici;
  5. L’ideologia multiculturale impedisce di venire a conoscenze dei problemi vissuti dalle minoranze etniche;
  6. Il multiculturalismo equivale al relativismo culturale e, dunque, non ha gli strumenti per opporsi ad alcune pratiche tipiche dei gruppi culturali tradizionalisti (matrimoni combinati, diseguaglianze di genere, mutilazioni genitali femminili, ecc.);
  7. Il multiculturalismo alimenta il fenomeno del terrorismo.

Ritengo che queste osservazioni siano in gran parte esagerate e possano dare adito a fraintendimenti. Non potendo discuterle una alla volta per ragioni di spazio, mi limito a rendere conto di come, se consideriamo le politiche pubbliche multiculturali, il discorso sulla crisi o addirittura la fine del multiculturalismo non corrisponda a verità.

Will Kymlicka ha elaborato un indice delle politiche multiculturali che rappresenta un tentativo di misurare l’evoluzione delle politiche multiculturali in modo comparativo. Questo indice (Ipm) assume che esistano otto fondamentali tipi di politiche in favore degli immigrati: affermazione del multiculturalismo a livello costituzionale, legislativo o parlamentare; adozione di curricula multiculturali; pluralizzazione dei media dal punto di vista culturale, in modo da rappresentare anche la realtà dei gruppi etnici minoritari; esenzioni da alcune leggi o regolamenti; concessione della doppia cittadinanza; sostegno economico alle iniziative culturali delle minoranze; finanziamento di programmi educativi bilingue; programmi di affirmative action in favore delle minoranze svantaggiate.

La conclusione raggiunta da W. Kymlicka è che, se si prende in considerazione l’Ipm dei paesi europei, il multiculturalismo è tutt’altro che in crisi. Si è passati da un Ipm medio di 0,7 registrato nel 1980 a uno di 2,1 nel 2000. L’Ipm medio ha continuato a crescere anche nel decennio 2000-2010, che, secondo l’opinione comune, dovrebbe essere il periodo di crisi più intensa. Infatti, l’Ipm medio nel 2010 è stato 3,1. Una significativa contrazione delle politiche multiculturali si è registrata solo in Olanda. Paesi come Italia e Danimarca, invece, hanno assistito a una modesta riduzione di tali politiche. Tuttavia, in Belgio, Finlandia, Grecia, Irlanda, Norvegia, Portogallo, Spagna e Svezia, nel decennio 2000-2010 c’è stata una crescita rilevante delle politiche multiculturali. Negli altri Paesi europei non elencati l’Ipm è sostanzialmente stabile, oppure è cresciuto in maniera trascurabile.

Dunque, si potrebbe essere tentati di affermare che, per risolvere i problemi irrisolti, generati dalla coesistenza di diversi gruppi culturali all’interno della stessa comunità politica, ci sia bisogno di più, non meno, multiculturalismo, anche perché l’alternativa proposta dai critici del multiculturalismo risulta poco praticabile e comporta dei rischi per quelle libertà individuali che costituiscono il nucleo essenziale delle nostre democrazie liberali. Mi riferisco al cosiddetto liberalismo muscolare. Questa espressione è entrata a far parte del dibattito corrente da quando, il 5 febbraio 2011, il premier britannico, David Cameron, denunciò la fine del multiculturalismo. D. Cameron esprimeva disappunto perché il cosiddetto «multiculturalismo di Stato» aveva finito per incoraggiare le culture differenti a vivere separate, piuttosto che a integrarsi e a creare un’identità collettiva.

Per reagire a questo stato di cose, D. Cameron propone il liberalismo muscolare. La formula indica il bisogno di un’azione politica forte, che ponga al centro l’identità della maggioranza sempre più minacciata dagli immigrati. Secondo D. Cameron, la tolleranza passiva tipica del multiculturalismo e la neutralità dello Stato, tra diverse concezioni del bene e opzioni etiche, devono essere abbandonate in favore di un atteggiamento che ribadisca la centralità dei valori morali e politici della maggioranza. Al fine di integrarsi adeguatamente, gli immigrati devono parlare la lingua del paese in cui vivono ed essere educati secondo la cultura e i valori della maggioranza.

Ritengo che il liberalismo muscolare non sia un’alternativa praticabile. A esso si possono muovere due obiezioni che finiscono per minarne sensibilmente la plausibilità. La prima obiezione è di tipo filosofico. Ai presunti problemi creati dal multiculturalismo, il liberalismo muscolare oppone il «tentativo di rinforzare una particolare visione monoculturale dell’identità nazionale» (1). Tuttavia, siamo sicuri che, nelle condizioni attuali, sia possibile avere una nozione monoculturale dell’identità nazionale? È possibile, in altri termini, negare il fatto della diversità culturale che caratterizza, indipendentemente dall’immigrazione, le democrazie occidentali? Una nozione monoculturale dell’identità nazionale implicherebbe l’esistenza di un’unica cultura, rigida, unitaria immodificabile e indiscutibile. Questo trascurerebbe che, come ci ha insegnato la filosofa Martha Nussbaum, lo scontro non è solo tra le culture e le civiltà, ma anche dentro. Ogni cultura, soprattutto quelle che fioriscono all’interno di contesti liberal democratici, ospita una grande varietà di significati, valori e concezioni difficilmente riconducibili all’unità.

Quando si discute di cultura e di gruppi culturali bisogna evitare di cadere nel cosiddetto essenzialismo. Chi vede le culture in termini essenzialisti, come ha scritto Anne Phillips, «esagera l’unità interna delle culture, solidifica le differenze […] fa in modo che le persone che appartengono ad altre culture sembrino più esotiche e differenti di quanto siano realmente» (2). La cultura e i gruppi culturali non devono essere visti come entità immutabili, monolitiche e omogenee. Le culture sono, infatti, entità fluide, diversificate al loro interno, sempre soggette al mutamento in risposta all’evolversi delle circostanze, e percorse da dissensi più o meno profondi.

Dunque, dato questo quadro, la concezione monoculturale dell’identità nazionale associata al liberalismo muscolare darebbe un quadro eccessivamente semplicistico della realtà. Inoltre, così facendo, si rischia di sottovalutare il ruolo che le minoranze, nello specifico gli immigrati, hanno avuto nel processo di definizione e ri-definizione dell’identità nazionale (3).

La seconda obiezione (non del tutto indipendente dalla prima) che si può muovere al liberalismo muscolare è di tipo politico. Il liberalismo muscolare, a mio avviso, è troppo esigente dal punto di vista politico, nel senso che chiede troppo alle minoranze. Nel discorso del 2011, D. Cameron non si limita a pretendere che tutti i cittadini, sia quelli appartenenti alla maggioranza sia le minoranze di immigrati, obbediscano alla legge. Il premier britannico si spinge ad affermare che bisogna credere nei valori liberali, come ad esempio la libertà di parola, la democrazia e il governo della legge. Tuttavia, come ha osservato Christian Joppke, questo comporta il collasso della distinzione kantiana tra diritto e moralità (4). Lo Stato liberale, tradizionalmente, si limita a esigere che i comportamenti dei cittadini siano conformi a quanto la legge stabilisce. Le credenze e le convinzioni   di ciascuno, da un punto di vista liberale, non dovrebbero essere il dominio sul quale si esercita direttamente il potere politico. Uno Stato liberale, in altri termini, dovrebbe interessarsi soltanto alla condotta dei cittadini, non a cosa essi credono. Ad esempio, un cittadino dovrebbe poter essere libero di avere delle credenze di stampo conservatore per quanto riguarda la sessualità, a condizione di non commettere azioni illegali nei confronti degli omosessuali.

In conclusione, se le riflessioni sulla crisi del multiculturalismo e le obiezioni al liberalismo muscolare sono plausibili, tutto il discorso recente sul multiculturalismo e la sua crisi va riconsiderato. La diversità culturale è un fatto ineludibile, che caratterizza le società liberal-democratiche contemporanee. È un fatto al quale le istituzioni politiche devono dare una risposta adeguata. La diversità culturale va accomodata senza cercare inutili scorciatoie come quelle richieste dal liberalismo muscolare. Lo Stato liberale, per tener fede ai suoi principi tradizionali, non deve imporre credenze e concezioni controverse su ciò che ha valore nella vita, ma limitarsi a rendere possibile la coesistenza pacifica di gruppi culturali, etnici e religiosi diversi. In particolare, l’eguaglianza non deve essere interpretata come uniformità, per cui bisogna riconoscere che non c’è un’unica forma di appartenenza alla comunità politica. A ogni individuo, fatti salvi i requisiti della coesistenza pacifica e il rispetto per i diritti fondamentali di ciascuno, deve essere riconosciuto il diritto di coltivare i propri valori e le proprie credenze, sia come individuo sia come appartenente a un gruppo culturale, etnico o religioso.

 

DOMENICO MELIDORO – Docente presso l’università Luiss.

Note

*Questo studio è stato presentato dall’autore durante la giornata internazionale di Coscienza e Libertà oggetto del dossier «L’informazione produce diritti?»

1 M. Ossewaarde, The National Identities of the “Death of Multiculturalism” Discourse in Western Europe, 2014, p. 174.

2 A. Phillips, Multiculturalism Without Culture, 2007, p. 14.

3 A. Triandafyllidou, Immigrants and National Identity in Europe, 2001.

4 C. Joppke, The Retreat is Real – but what is the Alternative?, 2014, p. 291.

 

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