Si addensano nubi di guerra, di una terza guerra mondiale: è già iniziata «a pezzi», insiste da tempo papa Francesco; non ancora ma il casus belli è pronto, secondo Foreign Policy che, per l’appoggio del Qatar ai terroristi dell’ISIS, preconizza Doha come la Sarajevo del XXI secolo. Una cosa è certa, però: che a differenza della prima e della seconda guerra mondiale, gli Stati europei non solo non offriranno il casus belli ma anzi neppure saranno l’un contro l’altro armati. Il progetto di costruzione dell’Unione europea, dopo secoli di guerre e nazionalismi, è stato indubbiamente il più grande evento della seconda metà del secolo scorso. Oggi segna una stasi, anche per gli effetti indotti su vari partners dal ritorno all’isolazionismo del Regno Unito. Sembrerebbe la conferma della diagnosi infausta fatta da quegli studiosi che avevano denunciato la mancanza di un popolo europeo come fondamento dell’Unione.

Ma è proprio così? La legittimità di una unificazione istituzionale, l’unità politica di un popolo non deriva piuttosto dall’eguaglianza di quel fascio di diritti che costituiscono la cittadinanza? Di quei diritti fondamentali, cioè, che sono positivizzati nella Costituzione? Non si può dire che i coloni che diedero origine agli Stati Uniti, immigrati com’erano da vari Stati europei, fossero già un popolo. Divengono the people of the United States nell’atto in cui pongono in essere una Costituzione. Che non era un semplice patto per regolare i rapporti tra stati e federazioni o tra Congresso e presidente. E neppure aveva, com’è scritto nel preambolo, solo il fine di garantire la giustizia, l’ordine pubblico interno, la difesa comune e, insomma, il general welfare. Essa aveva il fine di garantire anche alle future generazioni i diritti fondamentali, a cominciare da quello di libertà: the blessings of liberty to ourselves and our posterity.

Il bene della libertà è il primo dei diritti fondamentali che, riconosciuto dalla Costituzione a tutti i cittadini, fa di questi un popolo. Altri diritti seguiranno: nell’Ottocento, come lascito della Rivoluzione francese, si aggiungerà l’uguaglianza, nella prima metà del Novecento, grazie alle lotte del movimento operaio, la solidarietà sociale e nella seconda metà, per reagire al flagello della seconda guerra mondiale e dei lager nazisti, la dignità: quest’ultima, non a caso, evocata nelle leggi fondamentali della Germania e dell’Italia, i due paesi europei che con il nazismo e il fascismo al potere erano stati al riguardo i protagonisti negativi. Questi quattro beni vengono indicati appunto nel preambolo della Carta europea dei diritti fondamentali: «L’Unione si fonda sui valori indivisibili e universali di dignità umana, di libertà, di uguaglianza e di solidarietà».

C’è stato un momento in cui le chiese europee avevano insistito sul richiamo delle radici cristiane nel trattato istitutivo della «Costituzione» europea, poi posto nel nulla dalla mancata ratifica da parte della Francia e dei Paesi Bassi. E anche nella cultura giuridica non mancò allora chi riteneva non contraddittorio, con il rispetto dovuto a tutte le religioni e, quindi, con il principio di laicità o di non-identificazione, che fa parte della cultura giuridica europea, la constatazione di un fatto storico, quale la linfa ricevuta dal cristianesimo e, secondo una versione subordinata che si proponeva come mediazione, anche dall’ebraismo. Il tentativo fallì e fu una decisione saggia, perché tale richiamo avrebbe potuto, se il trattato fosse stato approvato, condizionarne l’interpretazione. Ma sotto il profilo storico-politico è corretto, in questo cinquecentenario della Riforma protestante, riconoscere la radice di quel richiamo alla libertà, contenuto nel preambolo della Carta di Nizza.

La luterana libertà del cristiano e la sua secolarizzazione

«Un cristiano è libero signore di tutte le cose e non è soggetto a persona alcuna». Ha il tono solenne e lapidario proprio delle Carte dei diritti – di quelle tratte dalle concrete esperienze di vita, che Paolo Grossi chiama «breviari giuridici» – questa solenne affermazione di Lutero. Certo, egli la fece nell’ambito di una contrapposizione dialettica tra anima e corpo, in contrasto con «i preti e la gente di Chiesa», cui stanno a cuore «tutte quelle opere buone, che si possono sempre fare per mezzo del corpo e nel corpo», come l’indossare abiti consacrati, digiunare, stare in chiesa, fare pellegrinaggi. Era, insomma, la libertà del cristiano quella   che egli rivendicava nei confronti del potere vaticano, come purtroppo si rivelò anni dopo nella veemente polemica che, prigioniero della secolare tradizione antigiudaica cristiana, condusse contro gli ebrei. Ma l’evocazione della libertà come dimensione fondamentale del cristiano rompeva il monopolio dell’autorità di pochi. Ognuno era sovrano di se stesso e solo con un atto di volontà, e non per condizione naturale, poteva assoggettarsi ad altri. E comunque mai fino in fondo perché ciò avrebbe determinato una condizione servile in contraddizione con la condizione fondamentale di libertà.

Il passaggio storico, un’autentica rottura del pensiero dominante, era talmente straordinario da porsi fuori della capacità operativa degli stessi riformati contemporanei. Le confessioni religiose del secolo XVI, tranne gli anabattisti – perciò perseguitati –, pur nate sull’onda del pensiero luterano sulla libertà del cristiano, non si battevano certo per rivendicare il diritto di ogni cristiano di adorare Dio a modo suo. Ciascuna di esse si batteva solo per il proprio diritto e, non diversamente dalla chiesa cattolica, non praticava alcuna tolleranza verso chi non la pensava nello stesso modo, negando l’esistenza di Dio o solo credendola in maniera diversa. Erasmo scrisse un libro, Sull’immensa misericordia di Dio, in cui sosteneva che «non sono empi coloro che negano affatto l’esistenza di Dio, quanto coloro che   lo rappresentano come inesorabile». Ma la realtà del tempo è rappresentata, purtroppo, da Miguel Serveto, che, come ha scritto Roland Bainton, ebbe il singolare privilegio di essere bruciato in effigie dai cattolici e in carne e ossa dai calvinisti, vittima della persecuzione degli uni e degli altri. Castellion perciò fu sarcastico   nei confronti di Calvino: «Chi ha costituito Calvino arbitro di tutte le sette, che egli solo debba uccidere? (…) parla come se fosse quasi in paradiso». Giudizio che ovviamente si attagliava anche, e a più forte ragione, all’Inquisizione cattolica. Comunque, da allora – ha riconosciuto il cardinale Schönborn – «l’Europa è stata sangue e lacrime per secoli di guerra tra cristiani».

Il seme, tuttavia, era stato gettato. Era stato distrutto il monopolio fino allora indiscutibile di un’autorità sola. Bastava sostituire nell’affermazione luterana «cristiano» con «persona» o, come faranno l’Illuminismo e la rivoluzione francese, «cittadino» e si sarebbe inaugurata la libertà dei moderni, come la chiamerà Benjamin Constant. Allora nacquero due Europe contrapposte, destinate a combattersi per secoli: fondate, come ha scritto di recente Adriano Prosperi, l’una sul «governo esterno della condotta morale» e l’altra sulla «coscienza morale come guida». Ma dopo l’abisso morale della seconda guerra mondiale è questa seconda Europa   che prevale e che, prima con le Comunità europee e poi con l’Unione, è assunta come base «per l’edificazione dell’Europa futura». L’Europa, quindi, è ben più che un mercato comune. Non è un popolo, certo, ma un insieme di popoli uniti (ex pluribus unum) dal comune fondamento, come è scritto nel preambolo del trattato sul funzionamento dell’Unione europea, costituito dai «valori universali dei diritti inviolabili e inalienabili della persona, della libertà, della democrazia, dell’uguaglianza e dello Stato di diritto».

Un’Europa infedele alla sua ispirazione

Ma è fedele l’Europa a questa ispirazione? In realtà, l’Europa sta dando da tempo la priorità non all’affermazione concreta di questi valori ma alla tenuta dei bilanci: che è, come dire, non ai cittadini e ai loro bisogni ma ai tecnocrati comunitari. L’Europa commissaria, a rischio di espulsione, la Grecia, minacciando la rottura di quella «cultura triangolare composta di prodotti intellettuali ebraici, greci e latini», che forma, per dirla con Arnaldo Momigliano, il collegium trilingue europeo. Nulla dice, invece, della deriva autoritaria e liberticida dell’Ungheria, che erge un muro contro i disperati del Sud del mondo e li ingabbia in lager spinati che riprendono le pagine più buie della storia europea della prima metà del secolo scorso. Né dichiara definitivamente irricevibile la domanda di adesione di una Turchia, che strumentalizza un tentativo abborracciato di colpo di stato, di opache origini, per compierne uno effettivo a favore del capo dello Stato, che vede l’annullamento delle libertà con oppositori del regime, giudici e avvocati incarcerati.

La realtà è che il processo di unificazione europea sta attraversando una delle fasi più disgregatrici della sua storia. Ad assicurare un’uniformità nell’interpretazione dei diritti da parte degli Stati, si ergono la Corte europea dei diritti umani e la stessa Corte di giustizia: ma episodicamente, com’è proprio degli interventi della magistratura. Sotto l’aspetto politico le disuguaglianze sono sotto gli occhi di tutti: i cittadini tedeschi valgono più degli altri, specie italiani, spagnoli, greci, semplicemente perché il loro governo conta più degli altri. Di qui una crescente sfiducia nell’Unione, vista ormai come nemica da fasce sempre più ampie della popolazione di ogni Stato. Lo ha riconosciuto anche il presidente della Commissione, Juncker, che già nel discorso sullo stato della UE nel 2015 aveva sottolineato che «non c’è abbastanza Europa in questa Unione. (…) non c’è abbastanza Unione in questa Unione», e nel 2016, ammettendo che non c’erano stati passi avanti,   ha indicato gli obiettivi che l’ue avrebbe dovuto raggiungere nei prossimi dodici mesi: «un’Europa che protegge; un’Europa che preserva il modo di vivere europeo; un’Europa che dà forza ai cittadini; un’Europa che difende, sia al proprio interno che all’esterno; e un’Europa che si assume responsabilità».

Il tempo sta per scadere ma è difficile ipotizzare che il risultato sarà diverso da quello già denunciato l’anno scorso: «Dagli elevati livelli di disoccupazione e di disuguaglianza sociale alla massa ingente di debito pubblico, dall’enorme sfida dell’integrazione dei rifugiati alle minacce più che concrete alla nostra sicurezza interna ed esterna: ogni singolo Stato membro è stato colpito dalla perdurante crisi che caratterizza i nostri tempi».

Analogia dei conflitti politici odierni con quelli religiosi passati

Come uscirne? Tornare indietro, ognuno a casa propria, non è facile, come dimostrano le estreme difficoltà che sta incontrando la Brexit, per cui il governo britannico ha già il fiato corto. A parte le conseguenze finanziarie e politiche di un’uscita dall’ue, comunque, la regressione ai piccoli stati “preunitari” metterebbe definitivamente in crisi i valori di solidarietà, eguaglianza, dignità, diritti umani, libertà: questi valori nel mondo globalizzato di oggi non sono attuabili all’interno dei confini di ciascuno Stato. Un tempo si poteva anche egoisticamente, nazionalisticamente, non pensare agli altri popoli: non più oggi nell’epoca delle grandi migrazioni, perché gli altri popoli si insediano anche nei nostri confini. I confini nazionali o etnici non reggono più. Altri sono i confini reali, come già cinquant’anni fa osservava don Milani nella lettera ai giudici: «Se voi però avete diritto di di- videre il mondo in italiani e stranieri allora vi dirò che, nel vostro senso, io non ho Patria e reclamo il diritto di dividere il mondo in diseredati e oppressi da un lato, privilegiati e oppressori dall’altro. Gli uni son la mia Patria, gli altri miei stranieri».

Il sovranismo, propagandato da alcune forze politiche, è perciò un’aporia. L’unica strada percorribile è quella dell’integrazione europea, riprendendo il cammino ispirato, com’è scritto nel preambolo, alle «eredità culturali, religiose e umanistiche dell’Europa». Il primo lascito di queste correnti storiche è stato la libertà, da cui sono scaturiti e a cui poi si sono aggiunti tutti i diritti fondamentali. Occorre allora innanzitutto lottare per salvaguardare la libertà dalla deriva economicistica del liberismo ideologico e tecnocratico e così contribuire alla lotta per un’Europa dei diritti, come è stato per decenni il sogno di molti. La lotta per la libertà e per i diritti nell’Europa odierna presenta alcune analogie con quella portata avanti cinquecent’anni fa. I nazionalismi stanno risorgendo e mettono i popoli di nuovo l’uno contro l’altro: italiani contro tedeschi, polacchi contro spagnoli, greci contro inglesi, che escono dall’Unione ma debbono fare i conti con gli scozzesi che invece vogliono rimanere. Tutti cospirano poi contro gli immigrati, dando legittimazione a un’ondata mai vista di xenofobia. Ebbene, i nazionalismi di oggi assomigliano ai confessionalismi di ieri: gli uni e gli altri affermano la propria libertà ma non si battono per quella degli altri, anzi contrastano oggi gli immigrati come ieri i non cristiani e i non credenti.

Se così è, in questo quadro analogico trova – forse inopinatamente in un tempo di secolarizzazione – il suo centro di convergenza e di durata quella libertà affermatasi mezzo millennio fa e ormai data per scontata almeno nei paesi europei e occidentali. Così non è: bisogna continuare a tematizzare la libertà come contenuto prioritario del progetto europeo. E in quest’opera di rivitalizzazione, in questa lotta per la libertà e i diritti, trovano la possibilità inaspettata di un protagonismo solidale le vecchie chiese cristiane. Certo, in una società multiculturale e multireligiosa il futuro dell’Europa non è più nelle loro mani, come invece nel Cinquecento: e allora sbagliarono, ciascuna rivendicando la libertà solo per se stessa e negandola alle altre. Ma ora hanno inteso che la loro libertà passa attraverso la libertà di tutti e che – com’è scritto nella dichiarazione di Lund del 2016 – il compito comune di cattolici e luterani è quello di difendere «la dignità e i diritti umani, specialmente dei poveri» e di «lavorare insieme per accogliere chi è straniero, per venire in aiuto di quanti sono costretti a fuggire a causa della guerra e della persecuzione, e a difendere i diritti dei rifugiati e di quanti cercano asilo».

Gli immigrati, banco di prova per l’Europa e per le  Chiese

Rifugiati e richiedenti asilo sono in gran parte musulmani, ai quali, come agli ebrei, Lutero e Leone, divisi su tutto, non avrebbero mai pensato come a soggetti di diritto. E invece sono loro, in maggioranza, oggi i soggetti immigrati e rifugiati, ai quali le chiese cristiane debbono necessariamente rivolgere i loro sforzi di solidarietà. E ciò proprio nel momento più difficile, quando l’islam viene associato   al terrorismo e ogni musulmano viene visto, se non come un potenziale terrorista, quanto meno come il tipo di soggetto refrattario al dialogo e all’integrazione nello stato di diritto con il riconoscimento dei diritti fondamentali. Paradossalmente le posizioni nazionalistiche e islamofobiche, che non perdono occasioni per dichiarare solennemente la superiorità del modello costituzionale e della cultura occidentali, condividono con alcuni orientamenti democratici una posizione di relativismo culturale, che giustifica appunto la separatezza tra comunità: la retorica del multiculturalismo è una strategia discorsiva normalmente allarmistica, quella dello scontro tra culture reciprocamente irriducibili, evitabile solo con il tracciamento di confini sicuri con una netta separazione tra «noi» e «loro», tra comunità ed etnie che devono rimanere separate, ognuna con la propria cittadinanza esclusiva.

In realtà, come ha considerato il Parlamento europeo in una risoluzione del 2015 particolarmente significativa perché volta alla «prevenzione della radicalizzazione e del reclutamento dei cittadini europei da parte di organizzazioni terroristiche», «il terrorismo e la radicalizzazione inducono molti stereotipi in merito alle religioni, cosa che a sua volta provoca un inasprimento dei reati generati dall’odio e dell’incitamento all’odio motivati dal razzismo, dalla xenofobia o dall’intolleranza nei confronti di pareri, convinzioni o religioni», laddove «è l’uso perverso della religione, e non la religione in quanto tale, una della cause della radicalizzazione». Di qui il riconoscimento del ruolo delle comunità multiculturali europee, la promozione di politiche contro la discriminazione e il razzismo, la garanzia dei diritti umani.

Il progetto di integrazione europea deve ricominciare da qui: dal mettere la libertà di tutti – anche degli immigrati, anche dei musulmani e di tutti i fedeli di religioni non cristiane – come contenuto essenziale e prioritario. E per esso anche le chiese cristiane, in cui – pur nella forma conflittuale che s’è detta – tuttavia si pose per la prima volta l’istanza della libertà, possono fare la propria parte e riacquistare credibilità quali protagoniste in questa globalizzazione dei diritti fondamentali.

 

NICOLA COLAIANNI – Professore di Diritto ecclesiastico, italiano e comparato, Università di Bari, giudice della Corte suprema di Cassazione fino al 2003.

 

 

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