Con la pubblicazione nel 1936 di Castellio gegen Calvin oder ein Gewissen gegen die Gewalt (1) fu subito chiaro che Stefan Zweig voleva ritrarre nei protagonisti del suo romanzo la contrapposizione fra due inconciliabili attitudini esistenziali: il fanatismo sanguinario del Riformatore ginevrino contro lo spirito tollerante dell’umanista savoiardo. E altrettanto chiaro fu che nel contesto politico europeo di quegli anni tale contrapposizione scavalcava i limiti puramente storiografici e si trasformava in una spietata denuncia di un totalitarismo ormai senza freni. Scritto tre anni dopo la presa di potere da parte del partito nazista e due dopo     la conseguente scelta di esilio volontario di Stefan Zweig a Londra, «Castellio contro Calvino» rappresentava per questo un lucido tentativo di smascherare la follia omicida che guidava Adolf Hitler, l’ultimo e il più pericoloso alter-ego dell’intollerante Calvino.

Proprio grazie a questo romanzo la figura di Sebastiano Castellione (2) è uscita dagli angusti limiti della ricerca storiografica ma, come spesso accade, è al contempo scivolata in una stilizzazione letteraria che ne ha spesso banalizzato il messaggio. La libertà della coscienza, la convivenza di religioni o confessioni diverse, il rifiuto della violenza sono temi connaturati alla storia umana che non possono trovare soluzione pratica nella semplice opposizione frontale fra i due estremi del fanatismo e della tolleranza, vanno invece sempre compresi e regolati nei loro precisi meccanismi interni (3). Se allora si prova a raccogliere la proposta di Zweig senza entrare nel campo della letteratura, ma rispettando i limiti imposti da una prospettiva critica, sarà lecito forse tentare di guardare al pensiero di Castellione e, senza stravolgerne il proprium storico, estrapolare in filigrana alcuni concetti centrali della sua dottrina della tolleranza che ancora oggi possono essere validi contro quegli estremismi religiosi difficilmente riducibili alle categorie secolarizzate della nostra società.

Il caso Serveto e il pericolo dell’anarchia delle coscienze

Al centro del suo romanzo, Stefan Zweig pone il caso Michele Serveto, che rappresenta in effetti una sorta di spartiacque nella storia della Riforma (4). Con la condanna a morte del medico spagnolo, reo di aver radicalmente messo in discussione il dogma trinitario, si compie nel 1553 la definitiva frattura fra quanti rimarranno all’interno delle chiese istituzionalizzate transalpine e ne condivideranno il processo di confessionalizzazione, e quanti invece continueranno a richiamarsi a una tradizione umanistica poco incline alle definizioni dogmatiche e aperta a posizioni religiose disparate. Soprattutto questi ultimi videro infrangersi nell’esecuzione di Serveto l’illusione che la Riforma potesse realmente assicurare una piena libertà di interpretazione dei testi sacri. Come denunciato nel loro manifesto, composto proprio sotto la regia di Sebastiano Castellione, il De haereticis, an sint persequendi (1554), con quella condanna a morte ci si era trovati di fronte ad una situazione inaspettata: anche le chiese transalpine sembravano tradire il programma originario della Riforma trasformandosi in organi di controllo e regimentazione delle coscienze tanto violente quanto la «babilonica» Chiesa di Roma.

Cosciente di venir descritto come un tiranno, addirittura come il nuovo «Papa di Ginevra», Calvino provava a spiegare la sua posizione come tentativo di mantenere la via media fra due estremi opposti ed ugualmente pericolosi: quello della «tirannia romana», dove la Parola era divenuta strumento di legge e oppressione, e quello di una libertà di coscienza vuota perché svincolata dalla Verità manifestata nella Scrittura. Contro quanti si appellavano a una misericordia indiscriminata, Calvino ricordava come fosse necessario non solo predicare, ma anche difendere la purezza della Parola e l’unità della Chiesa: se qualsiasi interpretazione umana della verità divina fosse stata accettata, la comunità dei fedeli si sarebbe disintegrata nell’anarchia totale e ogni singolo avrebbe potuto fabbricarsi una propria religione o dedicarsi all’ateismo estremo. Pur disposto quindi a tollerare e correggere errori e opinioni divergenti attorno ai dettagli più oscuri dei misteri divini, Calvino riteneva necessario ricorrere alla pena capitale contro ogni ostinata negazione di un’evidente verità – in primis la Trinità appunto – che metteva in discussione l’essenza di Dio su cui si basava l’identità stessa della comunità dei fedeli. Per questo motivo la Chiesa doveva vigilare sul mantenimento della pura dottrina donata da Dio non solo tramite la parola dei suoi ministri, ma anche tramite la spada dei magistrati (5). E questo perché nella visione calviniana, e più in generale nel XVI secolo, il mantenimento di un’unità sociale sulla base di una chiara confessione di fede era primario rispetto alla libertà del singolo, che poteva sussistere solo entro i limiti di una dottrina condivisa e prestabilita nei suoi contenuti essenziali. Difendere la Chiesa da ogni eresia corrispondeva quindi a difendere la stessa società da pericolosi elementi disgregatori.

Uccidere un uomo non è difendere una dottrina

In molti si opposero all’argomentazione di Calvino, ma furono gli scritti di Sebastiano Castellione – a cominciare proprio dal De haereticis, an sint persequendi pubblicato nel 1554 (6) – che ne proposero uno smantellamento concettuale radicale, ridefinendo i termini della stessa manifestazione della Verità divina e riformulando la questione della tolleranza all’interno di un nuovo modello gnoseologico.

Il primo principio introdotto da Castellione è la distinzione non ancora compiuta nel XVI secolo fra i compiti assegnati al magistrato e al pastore. Contro Calvino che riteneva anche il potere secolare in dovere di difendere la vera dottrina con la spada, l’umanista savoiardo ne limita il compito al mantenimento dell’ordine pubblico su cui si basa ogni tipo di società, di cui la Chiesa rappresenta un tipo. Ai magistrati spetta proteggere i pastori e in generale tutti i cittadini dalla violenza, non certo combattere idee e reprimere discussioni religiose che devono essere risolte solo usando la Scrittura e la ragione. Se quindi Serveto avesse attentato alla vita di Calvino o di qualche altro cittadino, allora sarebbe stato giustamente condannato a morte, ma dal momento che egli cercava solo un’occasione di discussione e confronto sullo spinoso dogma trinitario, avrebbe dovuto essere istruito solo con la forza della predicazione.

Uccidere un uomo, conclude Castellione, non significa mai difendere una dottrina, ma semplicemente uccidere un uomo (7). E questo è tanto più vero nel caso del messaggio di misericordia di Cristo, che in alcun modo può essere causa di violenza, pena una contraddizione performativa insanabile. Coloro che affermano di credere nel Vangelo, addirittura ne sono i ministri e i predicatori e ciò nonostante giustificano e praticano la violenza agli occhi dell’umanista stanno solo usando la Parola divina per giustificare i loro interessi privati, la loro sete di potenza e ricchezza.

La separazione radicale fra autorità religiosa e autorità politica si profila perciò fin da subito come estraneità di ogni dottrina dall’uso della spada e questo non solo perché ogni violenza contraddirebbe l’esempio di mansuetudine di Cristo, non solo perché la fede non può essere imposta dall’esterno, ma anche e soprattutto perché la dottrina divina solo in minima parte è definita chiaramente, mentre per il resto rimane consegnato ad innumerevoli interpretazioni personali.

Blasfemia, errore o lecita interpretazione

Proprio il concetto di Verità e la sua comprensione viene relativizzato in maniera radicale da Castellione, secondo il quale l’equazione automatica e assoluta fra errore e blasfemia introdotta da Calvino, era un malinteso pericoloso. L’umanista propone invece una netta distinzione fra l’empietà quale negazione cosciente e ostinata di Dio da una parte e, dall’altra, l’errore che si produce nel campo dell’interpretazione. Riprendendo l’etimologia del termine «eresia» nel senso di «scelta», Castellione ne distingue il valore a seconda della minore o maggiore coerenza con la Parola divina: una scelta buona si compie nel credere e agire secondo l’insegnamento di Cristo, una scelta empia quando si nega Dio pur avendolo conosciuto, una scelta intermedia se si accolgono le Scritture pur interpretandole scorrettamente in qualche singolo passaggio. Quest’ultimo era il caso di Serveto, che non aveva negato la Trinità in quanto tale, ma ne interpretava il mistero in modo rozzo e falsato.

Il rifiuto di far coincidere completamente errore ed empietà si radica in una distinzione fra l’attività d’interpretazione della Scrittura e la negazione malevola di Dio a cui consegue una distinzione fra la fede nel senso generale della Parola e la sua completa comprensione. Alla base di questi due assunti vi è la messa in discussione della chiarezza del messaggio divino consegnato alle Scritture. A differenza di Calvino – e con lui di gran parte della Riforma – Castellione sviluppa una concezione del testo sacro come produzione storica e linguistica umana che soggiace non solo a una naturale corruzione col passare del tempo, ma che si propone come imperfetta nella sua stessa formulazione originaria. Ciò non significa che in esso tutto sia relativo e corruttibile, ma che il suo contenuto veritativo indiscutibile debba essere ridotto a pochi contenuti specifici – i prima principia che riconoscono un solo Dio e il suo giusto operare nel mondo – e a un messaggio generale accessibile a tutti – il tenor scripturae che corrisponde alla delineazione di una prassi etica improntata alla misericordia e alla giustizia di Cristo. Su queste basi è sempre possibile stabilire la concordia tra i fedeli e costituire una comunità coesa ma dai contorni non rigidi. Il resto della Scrittura può essere infatti soggetto ad interpretazioni anche differenti, sempre legittime purché esse si dimostrino coerenti con questi (pochi) principi fondamentali e con questo (generale) modello di comportamento.

La ragione e il processo di comprensione della Verità

Se il testo sacro è imperfetto e quindi trasmette la Parola divina solo in maniera parziale, se la sua comprensione non è assicurata da un’illuminazione interiore dello Spirito, come distinguere la verità dall’eresia, tramite quali strumenti orientare la propria vita per giungere alla salvezza finale? Come evitare, infine, il dissolversi della comunità religiosa in un’anarchia di punti di vista disomogenei, pur assicurando al contempo piena libertà d’interpretazione a ogni fedele? Queste sono le questioni cui Castellione risponde tramite una nuova dottrina gnoseologica nel suo ultimo trattato, il De arte dubitandi (8). Pur rimanendo all’interno di una visione religiosa del mondo e non potendo di conseguenza essere letto in termini puramente illuministici o addirittura secolarizzati, questo testo costituisce un punto di torsione decisivo nella lunga storia della dottrina della tolleranza moderna, poiché ridefinisce in maniera radicale le modalità umane di relazione alla Verità divina.

Dal momento che sarebbe falso e addirittura malevolo – quindi impossibile – un Dio che promettesse la vita eterna pur sapendo che all’uomo è impossibile raggiungerla – dal momento che la verità divina gli rimane inaccessibile – di necessità si può dedurre che il Padre celeste abbia fornito agli uomini gli strumenti necessari per procurarsi il sostentamento spirituale necessario, esattamente come egli ha dotato gli uccelli di ali per volare alla ricerca di cibo. Gli strumenti di cui tutti gli uomini dispongono sono, per Castellione, le facoltà cognitive basilari – il dubbio e la fede, l’ignoranza e la conoscenza – che Dio stesso ha istituito per estrarre dalla Scrittura le conoscenze necessarie a guadagnarsi la salvezza eterna, ossia la perfetta conoscenza della Verità. Se però quest’ultima è un obiettivo irraggiungibile nella vita terrena, ciò non toglie che il suo conseguimento possa avvenire in maniera progressiva, proprio adattando di volta in volta al grado di espressione della Verità divina le capacità gnoseologiche umane.

Lo strumento tramite cui il fedele è in grado di scegliere quale sia l’atteggiamento più opportuno per accostarsi al testo sacro è la ragione filia Dei, che Castellione descrive ancora in termini fortemente spiritualistici, come espressione diretta della voce divina nell’uomo, antecedente per questo a ogni scrittura e a ogni tradizione. Proprio questa ragione – al tempo stesso profondamente storica, naturale eppure divina, eterna – permette di scavalcare qualsiasi mediazione ecclesiastica o scritturale fra uomo e Dio e fornire un piano di confronto neutro in cui ogni fedele ha pari diritto di sperimentazione e interpretazione. L’esperienza religiosa guidata dalla ragione non viene quindi più definita quale effetto di una Verità divina fissa e imposta dall’alto a cui il singolo fedele deve uniformarsi, ma anzi si configura come multiforme e sempre aperto tentativo di comprensione di Dio, come scoperta e sperimentazione in fieri del messaggio evangelico in cui teoria e prassi si fondono completamente. Nel De arte dubitandi di Castellione, ogni fedele è chiamato a usare le proprie facoltà naturali per analizzare il testo biblico, scorgervi tramite l’uso della ragione il massimo grado di verità cui gli è consentito accedere e guadagnarsi così il pane celeste, la sana doctrina christiana, isolandone i misteri (supra sensus et intellectum) dalle falsificazioni e dagli errori introdotti dagli uomini (contra sensus et intellectum). Riconosciuti i gradi di evidenza del messaggio divino, occorre poi, sempre tramite la ragione, scegliere lo strumento migliore tramite cui accostarsi ad ognuno di essi: il dubbio, l’ignoranza, la fede o la conoscenza. Proprio l’incapacità – o la non volontà – di distinguere i diversi gradi di evidenza della verità divina e quindi la necessità di approcciarli tramite strumenti gnoseologici adeguati è la fonte di ogni intolleranza: la pretesa di formulare giudizi certi su misteri divini incomprensibili all’uomo o la richiesta di una fede incondizionata in particolari oscuri della Scrittura sfocia inevitabilmente nella violenza come unico modo per piegare le coscienze, visto che non è possibile convincerle con la ragione.

La dinamica dell’esperienza religiosa fra dubbio, ignoranza, fede e conoscenza

La vera tolleranza non può che definirsi come conseguenza di un rapporto equilibrato e corretto con la Verità divina e, quindi, come coscienza dei limiti connaturati alla comprensione umana e come impossibilità di distinguere sempre chiaramente l’errore dai misteri divini o dalle possibili interpretazioni degli stessi. Di fronte ai passi controversi da cui non si può ricavare in maniera chiara un contenuto per tutti evidente è quindi opportuno mantenere il dubbio e accettare la compresenza di interpretazioni diverse. Nel caso invece di veri e propri arcani divini che l’intelletto umano nella sua debolezza non può cogliere, è necessario professare la propria ignoranza ed evitare di esprimere opinioni avventate e tan- tomeno imporle agli altri con la forza. In entrambi i casi, però, fintanto che non si negano i primi principi e il modello etico incarnato da Cristo su cui si fonda la concordia delle varie opinioni, ne va di aspetti della Scrittura che non sono necessari alla salvezza e che quindi possono essere tranquillamente tralasciati. Agli estremi opposti stanno la fede e la conoscenza, che devono essere applicate invece ai contenuti necessari al conseguimento della salvezza eterna. Vi sono spesso nella Parola verità che non possono essere descritte e dimostrate chiaramente, ma a cui un fedele non può rinunciare. È il caso della promessa di redenzione, di vita eterna, di giustizia o di resurrezione dei morti: nessuno può dimostrarne la veridicità o descriverne ogni dettaglio, ma credere in queste promesse è essenziale per indirizzare il cammino umano verso la salvezza. La fede è infatti per Castellione un atto libero della volontà umana, non un dono divino. E al tempo stesso questa fede non è cieca o insicura poiché, pur non conoscendo il contenuto delle promesse, il cristiano conosce la bontà di Dio che le ha formulate e il messaggio di misericordia e giustizia annunciato da Cristo. Proprio nell’accettare il rischio senza la certezza che quanto sperato si avveri, proprio nel coraggio di affidarsi totalmente al Padre, la fede è meritevole di una ricompensa e assicura la salvezza. Nessun merito invece è da riconoscere alla conoscenza che   si applica a verità manifeste quasi come adeguazione necessaria dell’intelletto alla realtà. Né la fede, né la conoscenza giustificano però alcun tipo di violenza, anzi proprio nella loro dialettica si concretizza l’esperienza religiosa come prassi etica improntata alla tolleranza. La dinamica fra i contenuti che si credono o si conoscono (oppure che si dubitano o ignorano) non è infatti statica poiché la relazione stessa del singolo con la Verità divina è un processo graduale di evoluzione e riconfigurazione. L’ambito della conoscenza nello specifico si amplia man mano che i contenuti della fede vengono esperiti nella pratica quotidiana e, in questo modo, vengono provati come veri. Una verità evidente – perché sperimentata – non può essere creduta, ma solo conosciuta, ecco perché là dove la fede finisce, la conoscenza inizia.

L’esperienza religiosa non si esplica perciò in una confessione di fede stabilita una volta per tutte, ma in una prassi di vita che è al tempo stesso una mèta cui ogni singolo fedele può pervenire tramite le proprie facoltà naturali, riconoscendo i propri limiti tramite il dubbio e l’ignoranza e adottando – realmente e progressiva- mente – il modello di giustizia e mansuetudine incarnato da Cristo tramite la fede e la conoscenza. Teoria e prassi, dottrina ed esercizio della giustizia rappresentano i poli indisgiungibili di una dinamicità sempre riconfigurata. Castellione invita così a ribaltare il modello tradizionale rendendo il credente attore attivo del processo gnoseologico e collocando l’interpretazione della Scrittura e della conoscenza di Dio entro la sfera inframondana, sottoposta per definizione ai limiti e agli errori della natura umana. Proprio in questo ampio spazio interpretativo, dove una pru- dente ignoranza mette al riparo da ogni temeraria pretesa di giudicare anche su ciò che non può essere conosciuto, si colloca la piena tolleranza verso opinioni discordanti e la misericordia verso gli errori, poiché nessun uomo può arrogarsi il privilegio di possedere la perfetta conoscenza della Parola divina. Nemmeno la Chiesa, costituita da semplici esseri umani, può rivendicare il diritto di stabilire la Verità e tramite essa di condannare un’opinione, ma deve semplicemente limitarsi ad ammonire chi erra, a guidare i deboli e a vigilare sulle discussioni dottrinali fra le varie interpretazioni affinché nessuno eserciti violenza, ma al tempo stesso nessuno neghi in parole o in atti l’esempio di Cristo.

 

STEFANIA SALVADORI – Storica della filosofia e della chiesa, storica della Riforma, Ricercatrice presso l’Accademia delle Scienze di Göttingen e la Herzog August Bibliothek di Wolfenbüttel.

NOTE

1 S. Zweig, Castellio contro Calvino, Castelvecchi 2015.

2 Per gli essenziali riferimenti biografici e bibliografici basti qui rimandare a H.R. Guggisberg, S. Castellio 1515-1563. Humanist und Verteidiger der religiösen Toleranz im konfessionellen Zeitalter, Vandenhoeck & Ruprecht, Göttingen 1997.

3 Si veda per una prospettiva ampia sulla prima età moderna Friedrich Vollhardt (Ed.), Toleranzdiskurse in der Frühen Neuzeit, De Gruyter, Berlin/Boston 2015.

4 Per un inquadramento storico si rimanda a R.H. Bainton, Vita e morte di Michele Serveto, introduzione di Adriano Prosperi, Fazi, Roma 2012.

5 G. Calvino, Defensio orthodoxae dei de sacra Trinitate contra prodigiosos errores Michaelis Serveti Hispani, Robertus Stephanus, Ginevra 1554, pp. 29-40.

6 S. Castellione, De haereticis an sint persequendi, Georg Rausch, Magdeburg [Oporinus, Basel] 1554.

7 S. Castellione, Contra libellum Calvini, s.e., s.l., s.d. [Olanda? 1612], p. 73.

8 S. Castellione, De arte dubitandi et confidendi, ignorandi et sciendi, ed. by Elisabeth Feist Hirsch, Leiden, Brill, 1981. Per un’analisi dell’opera sia qui permesso rimandare a S. Salvadori, Sebastiano Castellione e la ragione della tolleranza, L’«ars dubitandi» fra conoscenza umana e «veritas» divina, Mimesis, Milano 2009.

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