Introduzione

Per secoli, la lotta per la libertà religiosa in Europa è coincisa con quella per l’affrancamento da persecuzione, oppressione e diseguaglianza di persone la cui appartenenza a confessioni e religioni minoritarie determinava l’esclusione dal corpo della nazione e, di conseguenza, uno status dimidiato, donde i flussi migratori dentro l’Europa e verso paesi extra-europei. Dopo la seconda guerra mondiale, si sono affermati poco a poco, e contestualmente, il principio secondo cui tutti i cittadini hanno i medesimi diritti indipendentemente dallo status religioso e quello per cui possono esistere società e nazioni multi-religiose, ed è addirittura un bene che esistano (questo è ciò che chiamiamo pluralismo religioso). Si è trattato di conquiste al contempo socio-politiche e giuridiche legate da un rapporto di causa-effetto con il processo dell’integrazione europea. Fondamentale è stato l’approdo a una cittadinanza inclusiva della diversità religiosa e all’espulsione della nozione di «straniero» dal lessico dei principi e delle norme relative alla libertà religiosa. Il primo quindicennio del nuovo millennio ha rimesso in discussione quanto faticosamente acquisito. I conflitti religiosi globali e la crisi dell’integrazione europea sono coincisi con i fenomeni migratori che hanno convocato in forma nuova i vecchi fantasmi della discriminazione dello straniero, altro per etnia, nazione e religione. Siamo ormai alle prese con una fase del tutto nuova della storia della libertà religiosa (1).

È ora importante soffermarsi sul rapporto tra cittadinanza e libertà religiosa, per fissare il percorso fatto e per guardare alle scelte che incombono.

In questo contributo tento di fare ciò in due tappe cronologiche e logiche. La prima riguarda la costruzione europea di una cittadinanza «libera da» ogni forma di discriminazione sulla base della religione o del credo (traduco così l’espressione ormai convenzionale religion or belief); la seconda riguarda la costruzione di una cittadinanza «libera per» la coesione sociale e lo sviluppo.

Cittadinanza senza discriminazione di religione o di credo

È stato complesso, diversificato, ricco e conflittuale il percorso che ha portato al principio di una cittadinanza senza discriminazione di religione o di credo nei vari paesi europei e nel diritto ad essi comune.

La Costituzione italiana utilizza all’articolo 3 entrambe le espressioni, l’eguaglianza e la non discriminazione. Essa vincola al principio di eguaglianza anche la libertà delle confessioni, che l’articolo 8 c. 1 vuole appunto «eguale». Anche nell’esperienza britannica, molto più recentemente, i termini eguaglianza e non discriminazione si sono trovati insieme nell’Equality Act del 2010.

Nel diritto dell’Unione il principio di eguaglianza (art. 20 della Carta dei diritti fondamentali: «tutti sono eguali davanti alla legge») e quello di non discriminazione (art. 21 della medesima Carta: «è vietata qualsiasi forma di discriminazione fondata, in particolare, su (…) la religione o il credo») sono codificati l’uno accanto all’altro. Il principio di non discriminazione è poi completato dal sistema degli articoli 14 della Convenzione europea dei diritti fondamentali e 10 del Trattato sul funzionamento dell’Unione.

L’ambito in cui il principio di non discriminazione per ragioni di religione o di credo è stato più sollecitato è l’impiego. Ciò si deve al tempo stesso alla delicatezza dell’ambito e allo sviluppo della legislazione dell’Unione europea nel settore. La direttiva n. 78 del 2000 sulla discriminazione nell’impiego declina il principio di eguale trattamento e mette a punto la distinzione cruciale tra discriminazione diretta e indiretta. Così in proposito l’art. n. 2 della direttiva: «a) una discriminazione diretta si produce quando una persona è trattata in modo meno favorevole di come un’altra persona viene trattata, è stata trattata o sarebbe trattata se si trovasse in una situazione comparabile, sulla base di uno dei motivi di cui all’art. 1; b) una discriminazione indiretta si produce quando una disposizione, un criterio o una pratica apparentemente neutri sono suscettibili di comportare uno svantaggio particolare per persone di una religione o di convinzioni, d’un handicap, d’una età o di un orientamento sessuale dati, in rapporto a altre persone» (2).

Il diritto anti-discriminatorio a tutela dei cittadini europei e le politiche connesse pongono tre problemi fondamentali. Il primo riguarda il rapporto tra il progetto politico e la dinamica giuridica; il secondo attiene alla coerenza tra standard interno e politica estera; il terzo concerne il raccordo tra i vari attori e in particolare tra Unione europea, Consiglio d’Europa e Organizzazione per la Sicurezza e la Cooperazione in Europa. Quanto al primo problema, la costruzione di un diritto anti-discriminatorio ha sollevato la questione della coerenza tra il rafforzamento delle tutele giuridiche e la politica religiosa, tra l’individuazione e il perseguimento di obiettivi nel governo del fenomeno religioso e la definizione di strumenti giuridici adeguati. Il governo dell’Unione e quelli degli Stati membri sono apparsi incapaci di rispondere in modo adeguato. Da un lato, la dinamica giuridica ha avuto effetti imprevedibili che hanno spiazzato i decisori politici; dall’altro, le battute d’arresto dell’integrazione europea e le crescenti tensioni sulla multi-religiosità hanno reso ancor più difficile disegnare una politica pubblica solida e coerente.

Progetto politico e dinamica giuridica sono significativamente in tensione, e come emerge dalle denunce di discriminazione anti-islamica in discussione alla Corte di Giustizia dell’Unione europea. Nonostante la Corte abbia sviluppato una sua giurisprudenza sul religioso fin dagli anni Settanta, per la prima volta essa si misura con una doppia decisione di grande portata per la discriminazione religiosa. In due casi riguardanti il porto del velo sul luogo di lavoro (casi Achbita e Bougnaoui), in cui è in questione l’interpretazione della discriminazione diretta e indiretta, i due avvocati generali Kokott e Sharpston hanno offerto letture profondamente diverse dei casi, dei principi, e del diritto (3). Nei due pareri di Kokott e Sharpston la difformità è articolata in termini tecnico-giuridici, ma la questione è più ampia: essa riguarda appunto la difficoltà di governare gli effetti dal basso dell’integrazione giuridica europea, soprattutto in assenza di un progetto politico.

Al primo problema si connette il secondo, quello del rapporto tra la faticosa costruzione di uno standard interno, di cui testimonia il dibattito sui casi Achbita e Bougnaoui, e l’elaborazione negli ultimi anni di una politica estera europea         in difesa della libertà di religione o di credo. Il numero 35 delle linee guida dell’Unione europea per la protezione e promozione della libertà di religione o credo nell’azione esterna, impegna gli Stati membri nei termini seguenti: «gli Stati hanno il dovere di proteggere tutte le persone nell’ambito della loro giurisdizione contro la discriminazione diretta o indiretta, indipendentemente dalle ragioni addotte a giustificazione della discriminazione. Ciò include il dovere di abrogare legislazioni discriminatorie, di implementare leggi che proteggono la libertà di religione o di credo, e di contrastare pratiche che causano discriminazione, come anche di proteggere le persone dalla discriminazione operata dallo Stato o da altri attori influenti, religiosi o non» (4). Se l’Unione vuole essere autorevole nel perseguimento di questo principio al di fuori dei propri confini, deve anzitutto lavorare all’interno del suo territorio affinché, pur con le opportune differenze, si affermi uno standard coerente.

In tale sforzo – stiamo parlando del terzo principio – è necessario che lavorino insieme i governi nazionali, le varie articolazioni dell’Unione europea, e attori fondamentali per la cittadinanza senza discriminazione religiosa come il Consiglio d’Europa e l’Organizzazione per la Sicurezza e la Cooperazione in Europa. Le linee guida prodotte congiuntamente da queste due ultime organizzazioni «sulla personalità giuridica delle comunità di religione o di credo» nel 2014 offrono un ausilio prezioso in materia di diritti collettivi dei credenti, sulla base del principio in forza del quale per le comunità religiose «il diritto alla personalità giuridica è vitale per la piena realizzazione del diritto alla libertà di religione o di credo».

I tre problemi rappresentano la soglia da oltrepassare per una «libertà da» più matura per i cittadini, la società e le istituzioni europee. Tale movimento oltre le acquisizioni del passato non è tuttavia possibile se la «libertà da» non è completata da una «libertà per» prodromica a una «cittadinanza per» la coesione e lo sviluppo.

Cittadinanza per la coesione sociale e lo sviluppo

La costruzione di una cittadinanza «libera per» la coesione sociale e lo sviluppo ha implicazioni cruciali per la libertà di religione o credo. Se da un lato la libertà di religione o di credo va affermata e perseguita in quanto diritto fondamentale, per il suo valore intrinseco e indipendentemente da ogni calcolo di opportunità o di utilità, è anche vero che il suo rafforzamento dipende da un progetto di società democratica e pluralista, aperta al contributo dei credenti e bisognosa della responsabilità dei credenti.

La coesione «economica, sociale e territoriale» è stata identificata come obbiettivo europeo durante gli anni Novanta e ha preso forma all’inizio degli anni 2000 fino a trovare spazio nel Trattato sul funzionamento dell’Unione europea negli articoli 174-178. Si prevede che circa 300 miliardi di euro verranno dedicati dall’Unione a programmi di coesione nel periodo 2014-2020, in particolare attraverso il cohesion fund.

All’impegno dell’Unione europea per la coesione – e al correlato impegno al dia- logo con le comunità di religione o credo – corrisponde il crescente interesse multilaterale per il contributo dei credenti a uno sviluppo sostenibile su scala planetaria (5). Al fine del reciproco rafforzamento della cittadinanza e della libertà religiosa attraverso un solido progetto per la coesione e lo sviluppo, tre appaiono oggi gli ambiti cruciali: l’educazione sulla religione, l’equilibrio tra sicurezza e libertà di religione o credo e il dialogo tra governi e comunità religiose.

Sull’elaborazione di una politica europea armonica di cittadinanza libera ed eguale nell’educazione sulla religione (traduco così l’espressione convenzionale education about religion), pesano i conflitti in materia, la paura delle maggioranze, l’oppressione delle minoranze, e l’arroccamento dei paesi membri in difesa di una priorità nazionale. Sono esemplificative in proposito le condanne a Strasburgo di Norvegia e Turchia nel 2007 per la violazione dei diritti delle minoranze nei rispettivi sistemi confessionali di insegnamento della religione nella scuola pubblica, e la vicenda italiana del crocifisso culminata nel caso Lautsi: in questi casi, e in molti altri, il conflitto è sfociato in tensioni nazionali, poi proiettate sulla scena europea, con effetti negativi sul percorso verso un migliore sistema educativo sulla religione. Il compito strategico per gli attori europei, pubblici e privati, religiosi e non, è ora riprendere i Toledo guiding principles on teaching about religions and beliefs in public schools elaborati dall’OSCE/ODIHR nel 2007, aggiornarli e avviare una nuova stagione di impegno sul tema dell’«insegnamento sulla religione» nell’educazione pubblica (6).

Il secondo ambito cruciale di una cittadinanza «per» è la sicurezza. Davanti all’allarme dell’opinione pubblica europea per il terrorismo globale e per le migrazioni, il nesso tra cittadinanza e libertà di religione o credo dipende ormai in notevole misura dalla questione sicurezza: ciò riguarda il vissuto quotidiano – le cosiddette restrizioni sociali – le politiche, in particolare governative, e la dinamica giuridica. Occorre in proposito mettere ulteriormente a punto il meccanismo giuridico – soprattutto nell’equilibrio tra libertà e legittima esigenza di sicurezza – elaborare ulteriormente sul piano culturale, sociale e politico i modi mediante i quali sicurezza e libertà possono beneficiare l’una dell’altra, ed evitare al contempo   che la libertà sia accettata solo in quanto propedeutica alla sicurezza, come a mio avviso alcuni studi rischiano di suggerire (7).

È utile in proposito ispirarsi ai due principi suggeriti da Heiner Bielefeldt, relatore speciale delle Nazioni Unite per la libertà di religione o credo, nel suo rapporto su Violence committed in the name of religion del 29 dicembre 2014: da un lato non esagerare e isolare il ruolo del fattore religioso nella minaccia alla sicurezza; dall’altro non sottovalutarlo o sminuirlo in nome della cosiddetta «teoria della strumentalizzazione», per cui il vero nodo della violenza non è religioso, ma è la strumentalizzazione, soprattutto politica, di una religione di per sé innocente. Il terzo ambito critico è quello del dialogo tra comunità religiose e tra queste e i governi. L’articolo 17 c. 3 del Trattato sul funzionamento dell’Unione fissa in proposito un principio che ancorché limitato tecnicamente al dialogo dell’Unione europea, funge ormai da riferimento per ogni istanza governativa europea sovranazionale, nazionale o locale: «riconoscendone l’identità e il contributo specifico, l’Unione mantiene un dialogo aperto, trasparente e regolare con [le chiese, le associazioni o comunità religiose e le organizzazioni filosofiche e non confessionali» (8).

Il principio è ancora più significativo in un contesto politico-istituzionale in cui da più parti si invoca il dialogo interreligioso come antidoto alla radicalizzazione e allo scontro tra comunità. A tal proposito, la costruzione di una cittadinanza «per» richiede si agisca in tre direzioni. Anzitutto, bisogna evitare che il dialogo interreligioso sia la foglia di fico dietro la quale si cela la costruzione governativa di una super religione moderata sincretistica. Se un’iniziativa governativa in proposito è benvenuta, essa deve limitarsi al dialogo del governo con le comunità, in un quadro rigoroso di rispetto della incompetenza teologica dello Stato e della sua imparzialità e neutralità, e tramutarsi in una iniziativa governativa per il dialogo tra attori religiosi solo con estremo rispetto e cautela. La seconda direzione, in tal senso, è il riconoscimento della necessità di una libera iniziativa delle comunità di religione o credo che devono restare gli attori fondamentali in materia. Infine,  il dialogo deve essere il più aperto e multilaterale possibile, e a tal titolo deve includere la rappresentanza di fasce deboli, in particolare donne e giovani.

Ho presentato sinteticamente il quadro e le sfide per una cittadinanza europea rispettosa della libertà di religione o credo. «Libertà da» e «libertà per» devono rafforzarsi a vicenda in una dinamica anzitutto culturale e sociale, e poi politica e religiosa, in cui le comunità di religione o credo hanno un ruolo decisivo, e rispetto alla quale i governi devono essere un partner consapevole dei propri limiti e impegnato a garantire giuste regole d’ingaggio.

Spetta agli europei maturare la necessaria consapevolezza del grande percorso compiuto, in particolare della costruzione di un’area di tutela del religioso sottratta all’assoluto imperio della sovranità nazionali. Deve venire da quella consapevolezza l’energia per affrontare le nuove sfide rispetto all’educazione sul fenomeno religioso, al bilanciamento tra libertà religiosa e sicurezza e al dialogo interreligioso.

 

MARCO VENTURA – Professore ordinario presso il Dipartimento Giurisprudenza dell’ Università di Siena, docente di Diritto canonico, Diritto ecclesiastico, Diritto e islam.

NOTE

1 Ho sostenuto questa tesi in M. Ventura, «Dio è tornato, le guerre di religione aumentano, la libertà religiosa diminuisce», in Corriere della Sera. La Lettura, 24 luglio 2016, p. 9.

2 Rinvio per una più ampia presentazione a M. Ventura, «Libertà religiosa e divieto di discriminazione nel diritto dell’Unione Europea», in vol. CXXI, 3-4, [2010] Il Diritto Ecclesiastico, pp. 487-496 e, più precisamente per l’Italia, a M. Ventura, «Religion and Discrimination Law in Italy», in M. Hill (ed), Religion and Discrimination Law in the European Union. Trier: Institute for European Constitutional Law, University of Trier, on behalf of the European Consortium for Church and State Research, 2012, pp. 189-206.

3 Rinvio in proposito alla presentazione dei due casi e all’analisi di Angelo Licastro, «Il dubbio di una «velata» discriminazione: il diritto di indossare l’hijab sul luogo di lavoro privato nei pareri resi dall’Avvocato generale alla Corte di giustizia dell’Unione europea», in Statoechiese.it, 26 settembre 2016.

4 Mia traduzione.

5 Rinvio in proposito al mio intervento su «Religion as a resource in G20 contribution to an innovative, invigorated, interconnected and inclusive world economy» al G20 interfaith CASS Forum. Dialogue among civilisations and human destiny community che ha avuto luogo a Pechino il 31 agosto – 1 settembre 2016.

6 Per maggiori dettagli rinvio a M. Ventura, «An Inclusive Approach to Religion in Public Education. The Legal Dimension», in vol. 4, [2012] Historia Religionum. An International Journal, pp. 89-100.

7 Penso in particolare alle ricerche della Religious Freedom and Business Foundation, per cui si può vedere http://religiousfreedomandbusiness.org.

8 Rinvio per un’analisi della norma a M. Ventura, «L’articolo 17 TFUE come fondamento del diritto e della politica ecclesiastica dell’Unione europea», in vol. 22/2 [2014] Quaderni di diritto e politica ecclesiastica, pp. 293-304.

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