È per me un onore introdurre i lavori di questa Giornata internazionale di Coscienza e Libertà, promossa dall’Associazione internazionale per la difesa della libertà religiosa (AIDLR), che sarà incentrata su temi particolarmente importanti e cruciali dell’agenda politica contemporanea: le nuove sfide alla democrazia rappresentativa portate avanti dai radicalismi identitari e dai populismi.

Saluto insieme agli organizzatori tutti gli autorevoli relatori che interverranno nelle due sessioni in cui si articola questa giornata.

La crescita del populismo è una delle sfide più significative lanciate alle democrazie occidentali nell’ultimo quarto di secolo. Lo «sfidante» è interno al sistema democratico ma è, al tempo stesso, anche contro la democrazia liberale, e questo dato di fatto pone il sistema sotto stress.

Il populismo è una minaccia interna alla democrazia, alla cultura e alle norme che consentono alle liberal-democrazie di funzionare. Non cerca di soppiantare   la democrazia ma, almeno a parole, pretende di cambiarla.

Il populismo rifiuta i controlli e i bilanciamenti istituzionali della liberal-democrazia. Mentre la politica si concentra sul pragmatismo, sul bilanciamento dei poteri e sul gioco inter-istituzionale.

La crescita del populismo, tuttavia, è il sintomo (e non la causa) della incapacità della politica tradizionale di comprendere e realizzare bisogni e desideri di cittadini destabilizzati dai cambiamenti sociali, culturali, economici e politici in atto. Da cosa traggono forza i nazional-populismi che si vanno affermando oggi in tutta Europa, dalla Spagna all’Ungheria? Dall’idea di fondo che senza gli altri saremmo più ricchi, per riprendere un’efficace espressione del politologo francese Dominique Reynié. Dove quel «più ricchi» si può intendere nel senso di stare comunque meglio, avere meno difficoltà e paure, maggiori possibilità di tirarsi fuori dai propri problemi se viene contenuta, o meglio ancora eliminata, la minaccia di cui è portatore «l’altro».

È questo il messaggio da far arrivare a contribuenti esasperati, a cittadini impauriti, a giovani senza lavoro e prospettive. Un messaggio essenzialmente negativo, perché l’offerta politica dei nazional-populisti è tutta racchiusa in risposte «contro», in invettive nei confronti del «nemico», rifiutando la complessità dei problemi e delle situazioni; un messaggio che si concentra sulla critica alla democrazia rappresentativa, spesso insistendo su non ben definite forme di democrazia diretta. Insieme alle cause socio-economiche ecco dunque quelle politiche, con il rifiuto delle formazioni tradizionali, considerate tutte egualmente responsabili del degrado, dell’aumento dei costi della politica, degli sprechi e degli alti livelli di corruzione.

Il punto di coagulo del nazional-populismo è rappresentato dall’antieuropeismo, dalla difesa della nazione, del popolo, dei cittadini rispetto all’invadenza del «superstato europeo» e della burocrazia dell’Unione europea.

In realtà i nazional-populisti sbagliano sia la diagnosi – recessione e disoccupazione non sono causate dall’euro, anzi, proprio la moneta comune ha evitato che la crisi globale avesse conseguenze peggiori – sia la terapia – non è ritirandosi all’interno dei propri confini che si possono affrontare le sfide mondiali, regolare la finanza e competere con le grandi potenze, ma al contrario costruendo un’Europa politica che abbia forza e ruolo adatti a questi obiettivi.

Nonostante questi errori di fondo, i nazional-populisti hanno però successo perché sfruttano la paura, il disagio sociale, la sfiducia verso la politica tradizionale e perché offrono risposte semplici a problemi complessi (basta uscire dall’euro e i problemi economici del Paese spariranno) e identificano facili capri espiatori (gli immigrati, la moneta comune, le élite tecnocratiche).

Nemmeno la distinzione tra destra e sinistra, nelle parole d’ordine dei nazional-populisti, regge più. Per loro, per la loro propaganda, la linea di separazione passa tra classi dominanti, indifferentemente di destra e di sinistra, da una parte, e classi popolari, la «gente», dall’altra. Il vero fossato, insomma, è quello che separa «l’alto e il basso». Proprio Marine Le Pen lo ha del resto affermato chiara- mente all’indomani delle elezioni amministrative francesi, con le quali a suo dire

«finisce la distinzione tra destra e sinistra in Europa. La vera lotta è tra l’alto e il basso della società. In alto ci sono i socialisti e i sarkozysti, l’euro e l’Europa, l’immigrazione e il libero mercato. In basso c’è il popolo. E ci siamo noi».

L’uso sempre più diffuso del web sta contribuendo al consolidarsi di questi movimenti: la cosiddetta «democrazia della rete», quando significa coinvolgimento effettivo di chi preferisce non rivolgersi ai canali tradizionali di partecipazione politica o incontra difficoltà nel farlo, quando vuol dire estendere a fasce più ampie di cittadini la sfera della scelta e della decisione, soprattutto su determinati e particolari temi, è sicuramente un fatto positivo per la crescita del processo democratico.

Al tempo stesso, come ha recentemente rilevato uno studio sui populismi in Europa condotto dall’ISPI, coordinato dal prof. Martinelli, la democrazia della rete offre sì voce ai cittadini che interagiscono nella piazza elettronica, ma diventa spesso la piattaforma legittimante per l’affermazione di leader plebiscitari che gestiscono il movimento in modo apparentemente partecipato, ma sostanzialmente autoritario e intollerante del dissenso.

Quali sono le risposte delle classi dirigenti democratiche a queste sfide? Da un lato occorre comprendere le tematiche che favoriscono un potenziale sostegno al populismo radicale; lavorare per sviluppare nuove eccellenze di governo, che includano visione nazionale, interventi pubblici mirati al sostegno del lavoro e del welfare, costruire una nuova «democrazia governante», più vicina a cittadini, come stiamo cercando di fare in Italia con la riforma costituzionale che fa sistema con le altre riforme sul piano sociale e delle libertà civili, attraverso le quali stiamo recuperando il tempo perduto negli ultimi venti anni.

«Democrazia governante» significa soddisfare i bisogni locali, mobilitare i nuovi elettori nei canali tipici della democrazia liberale, sfidare l’odio e l’estremismo, sostenere la crescita della vita comunitaria, sviluppare il capitale sociale nelle comunità.

Una tale concezione democratica è una componente cruciale di quella «nuova eccellenza di governo» che da più parti si invoca a livello europeo. Tutto ciò non si deve realizzare solo attraverso i partiti politici e le loro classiche modalità di funzionamento e azione – che comunque devono cambiare – , ma anche mediante le organizzazioni dei cittadini, le campagne sul territorio e le autorità locali.

Le leadership democratiche europee devono essere in grado di collegare questo tipo di strategie nazionali con una nuova governance dell’UE capace di superare l’attuale assetto intergovernativo, con le sue implicazioni tecnocratiche e burocratiche, che si è dimostrato inadeguato, incapace di risolvere la grave crisi economico-finanziaria e le emergenze geopolitiche del nostro tempo, dall’emergenza del Mediterraneo alla gestione dei flussi migratori.

L’Europa aveva e ha il dovere di farsi comunità politica per davvero, riducendo i gap economici, lavorando sui contenuti, potenziando le affinità tra i popoli. Perché, come immaginarono Spinelli, Rossi, Colorni – antifascisti e padri dell’europeismo moderno – l’Unione europea deve continuare a farsi solida barriera contro le guerre, i pregiudizi, le violazioni dei diritti umani, l’isolamento, il razzismo, l’intolleranza religiosa, il provincialismo. Deve farsi volano, occasione creativa, visione.

E con questo auspicio auguro a tutti voi buon lavoro.

 

MARINA SERENI – Vicepresidente della Camera dei deputati.

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