Se, dall’oggi al domani, la libertà di religione dovesse scomparire dai vari trattati, costituzioni e progetti di legge statutari nei quali si trova attualmente, la maggior parte di ciò che oggi è tutelato in quanto religione potrebbe anche esserlo in quanto manifestazione della libertà di espressione. Perché, sebbene la religione possieda una sua dimensione interiore, contemplativa, la maggioranza delle fedi comunica in vari modi: i credenti possono pregare gli uni con gli altri, cantare o salmodiare, leggere gli scritti sacri, insegnare ai bambini, scrivere opere religiose di vario tipo, predicare, manifestare e fare proselitismo, tutti esempi di libertà di espressione così come di libero esercizio della religione. Inoltre, le religioni utilizzano molte forme di espressione simbolica: nell’abbigliamento religioso, nell’esposizione dei simboli, nei riti e nell’indossare oggetti religiosi e acconciature particolari. Tutto ciò rientra anche nella nozione di libertà di espressione in numerose giurisdizioni.

Mentre nelle democrazie alcune forme di espressione religiosa sono rimaste al di là dell’ambito del legittimo intervento dello Stato, altre si sono rivelate molto più controverse. Il presente articolo esplora diverse aree particolarmente soggette a controversia, rispettando la coincidenza tra libertà di espressione e di religione, come il porto di abiti o simboli religiosi, i discorsi che incitano all’odio e la diffamazione religiosa, la preghiera o l’insegnamento religioso nelle scuole pubbliche e i simboli religiosi nelle istituzioni pubbliche.

Uso di abiti e simboli religiosi

Numerosi credenti si sentono sia obbligati sia desiderosi, per motivi religiosi, di indossare abiti e simboli che manifestano la loro adesione a una religione particolare. Tra le pratiche che talvolta i membri di alcune confessioni adottano, troviamo il turbante e il kirpan (coltello religioso) indossati dagli uomini sikh, le treccine dei rastafariani, la kippà dagli uomini ebraici e il velo per le donne musulmane o ebraiche, o ancora la croce per i cristiani (1).

In seno a una stessa religione, gli individui possono avere anche concezioni differenti su ciò che è prescritto in questo campo. Ne è un esempio il caso inglese di S.B. contro Denbigh High (2) che riguardava una studentessa desiderosa di indossare il più rigoroso jilbab (il velo islamico), invece dello shalwar kameeze, l’uniforme scolastica delle ragazze musulmane concepita in consultazione con la comunità islamica della scuola. Questo processo ha evidenziato che c’era divergenza di opinioni tra i musulmani in seno alla scuola, come anche nelle comunità locali e nazionali, riguardo a quale tipo di abito religioso fosse più appropriato o necessario per un’adolescente musulmana.

Oltre all’abbigliamento adottato dai credenti comuni, alcune cariche religiose includono il dover indossare tonache, paramenti o simboli che segnalano la funzione di chi le porta, in modo che siano distinti dai membri laici della stessa religione. Il Comitato dei diritti umani delle Nazioni Unite ha riconosciuto che esporre i simboli religiosi o «indossare dei vestiti o dei copricapo distintivi» è una manifestazione della propria religione e, di conseguenza, beneficia della protezione del diritto internazionale (3).

La decisione di indossare un tipo di abito o simbolo religioso dovrebbe essere essenzialmente individuale. Naturalmente, le diverse organizzazioni religiose e i loro dirigenti avranno delle opinioni particolari su tale questione e cercheranno talvolta di convincere i loro adepti del valore del loro parere (e forse anche rifiuteranno il permesso di far parte della loro comunità a coloro che non vi aderiscono). Lo Stato non ha il ruolo di formulare leggi di stato su un tipo di ortodossia religiosa. In alcuni Paesi, tuttavia, avviene tale imposizione. Nei Paesi come l’Iran o l’Arabia Saudita, le donne sono costrette a velarsi a prescindere dal fatto che credano o meno che ciò sia richiesto dalla loro religione e, quindi, a prescindere dalla loro religione. Un esempio: secondo la testimonianza della Relatrice speciale delle Nazioni Unite sulla libertà di religione o di convinzione, il capo della polizia iraniana ha dichiarato che «nel 2006, più di un milione di donne sono state fermate a causa del modo in cui indossavano il hijab, (il velo islamico), e diecimila sono state incolpate di violazione del codice sull’abbigliamento» (4). Una tale coercizione limita al tempo stesso la libertà di religione e la libertà di espressione degli individui, costituendo pure una grave ingerenza nei diritti alla libertà e alla parità dei sessi.

Una situazione inversa sta sorgendo in diversi Paesi, particolarmente in Europa, dove le donne musulmane che desiderano portare il velo si vedono sempre più spesso negare il diritto di farlo (5). In alcuni Stati europei, lo spazio per esse sembra diminuire, e sono state anche prese, in Paesi come Singapore (6), delle misure contro il velo a scuola. In uno dei primi casi in cui si è dovuta pronunciare su questo problema, la Corte europea dei Diritti umani ha ritenuto normale esigere che un’insegnante di scuola elementare si togliesse il velo, in parte a causa della vulnerabilità dei suoi giovani alunni al proselitismo (7).

Tuttavia, in meno di dieci anni, la Corte ha anche approvato una legge turca che impediva a una studentessa musulmana in medicina di seguire i corsi universitari con la testa coperta e una legge francese che impediva a una liceale di frequentare la scuola pubblica con il velo, sebbene non ci fosse, in entrambi i casi, il problema della vulnerabilità degli alunni (8). Questi casi sono stati importanti nella misura in cui la volontà di vietare il velo era legata ai messaggi – di proselitismo, di fondamentalismo e sull’uguaglianza dei sessi – che si sospettava volesse far passare, e la Corte sembrava preoccuparsi poco (anche se è accettata l’ipotesi significativa che questi legami controversi fossero giustificati) di sapere se una tale interdizione fosse sufficientemente fondata. I casi, invece, sono stati focalizzati unicamente sulla dimensione religiosa dell’avere la testa coperta.

In paesi come la Francia, il Belgio e l’Italia, si assiste da poco a un’evoluzione verso delle restrizioni ancora più circostanziate che potrebbero avere come effetto l’esclusione da numerosi spazi pubblici delle donne che indossano un velo sul viso. I politici che promuovono tali leggi in alcuni di questi Stati hanno anche commesso l’errore di supporre di poter decidere ciò che è prescritto da una religione. Per esempio, Mara Carfagna, (ex ndr) Ministro italiano delle Pari Opportunità, ha affermato che il divieto di indossare il burqa non è una limitazione alla libertà religiosa perché esso non è un simbolo religioso. Per avvalorare quanto asserito, si è riferita alle dichiarazioni di ecclesiastici musulmani: «Non siamo noi che lo diciamo, ma le più alte autorità religiose del mondo islamico, come gli imam del Cairo e di Parigi» (9). Con questa affermazione, però, non coglie il punto. Vi è certamente una scuola di pensiero che sostiene che il velo non sia richiesto dall’islam, ma ce ne sono altre che affermano il contrario. Si tratta di un importante dibattito interno in seno all’islam, ma non sta al governo italiano decidere il risultato di questo dibattito religioso e di imporlo ai musulmani italiani, non più di quanto non stia al governo iraniano di fare valere il punto di vista religioso opposto.

Tuttavia, una serie di altre ragioni è stata data per giustificare le restrizioni imposte sull’abbigliamento e i simboli religiosi. Anche se non è possibile studiarle in dettaglio in questa sede, alcune delle più significative sono degne di nota (10).

La prima è la questione della sicurezza pubblica. Talvolta tali limitazioni sono completamente specifiche e interamente giustificate. Per esempio, un sikh che era accusato di crimini violenti si è visto negare il diritto di portare il suo kirpan   in tribunale per il rischio che lo usasse in modo da mettere in pericolo le altre persone; questa decisione è stata confermata in appello. Invece, i tribunali canadesi hanno giudicato che erano stati violati i diritti di un alunno al quale era stato proibito dalla scuola di portare il kirpan in classe, in virtù di un’interdizione generale di portare coltelli a scuola (e nonostante l’alunno fosse stato pronto a prendere le precauzioni necessarie per limitare gli eventuali pericoli posti dal kirpan) (11). L’esperienza canadese dimostra che si può avere un approccio sfumato sull’uso dei simboli religiosi e sulle questioni che riguardano la sicurezza, piuttosto che attenersi ad affermazioni che qualunque o nessuna restrizione è possibile. In altri casi, sono formulate delle dichiarazioni più generali sul pericolo che può rappresentare l’abbigliamento religioso per la sicurezza nazionale, in particolare i veli islamici che nascondono il viso. Essi sono talvolta accusati di essere legati al fondamentalismo o di favorire (senza precisare in quale modo) gli attentati alla sicurezza nazionale. Il Consiglio di stato francese ha recentemente avvisato che le proposte francesi di vietare tali indumenti generalmente sulla base della sicurezza nazionale non erano proporzionate o mirate a una dimostrabile minaccia contro la sicurezza pubblica, e perciò rischierebbero di infrangere la libertà di religione protetta dalla Convenzione europea dei diritti umani (12).

Altro motivo spesso invocato per l’interdizione del velo islamico: esso è incompatibile con i diritti delle donne. Tale questione è in sé fonte di discussioni in seno alla comunità musulmana, con le associazioni femminili musulmane che sostengono i diritti delle donne e che sono favorevoli al divieto di alcuni o di tutti i tipi di velo, ma anche con altri che vi si oppongono. In uno dei principali casi istruiti dalla Corte europea dei diritti umani sul diritto di una studentessa di indossare il velo all’università, la maggioranza della Corte ha concluso che una delle ragioni che giustificavano la legge che vieta il velo in alcune istituzioni pubbliche della Turchia era l’importanza della parità dei diritti tra uomini e donne. Ma la Corte non ha dato in realtà gli elementi per spiegare se, e in che cosa, tale uso perpetuava la disuguaglianza tra i sessi. Nella sua opinione contraria, il giudice donna Tulkens ha dichiarato: «Indossare il velo è considerato un sinonimo di alienazione delle donne. Il suo divieto è quindi visto come un modo di promuovere l’uguaglianza tra gli uomini e le donne. Ma qual è, in effetti, il legame tra il divieto e la parità dei sessi? La sentenza non lo dice. Peraltro, qual è il senso dell’indossare il velo? Come fa notare la Corte costituzionale tedesca nella sentenza del 24 settembre 2003, indossare il velo non ha un significato univoco; questa pratica risponde a varie motivazioni. Non simboleggia necessariamente la sottomissione della donna all’uomo e vi sono coloro che sostengono che, in certi casi, potrebbe anche essere uno strumento di emancipazione delle donne. Ciò che manca in questo dibattito è la voce delle donne, sia di quelle che indossano il velo sia di quelle che hanno deciso di non portarlo» (13).

In certi casi, ci può essere un’altra preoccupazione analoga alla precedente: il timore che l’abbigliamento religioso non sia indossato volontariamente ma sotto pressione, e forse anche sotto la minaccia di violenze, dei membri della famiglia o della comunità. Questo è particolarmente rilevante nei casi in cui sono coinvolte delle alunne, ed è provato che in alcune scuole ci sono delle giovani musulmane molto favorevoli alle restrizioni o all’interdizione dell’abbigliamento religioso perché altrimenti rischiano di essere oggetto di pressioni o di critiche per non essersi conformate ai rigorosi codici sull’abbigliamento (14). La relazione tra la libertà religiosa e i diritti concernenti l’uguaglianza dei generi è una nozione complessa e contestata. Basti sapere che la promozione della parità dei diritti tra uomini e donne è un motivo ammissibile per limitare la libertà religiosa sulla base del diritto internazionale. Ma bisogna avere cura di assicurarsi che esista un legame logico tra la promozione dei diritti delle donne e le misure di protezione scelte, e che queste misure siano proporzionate al pregiudizio subito. Le donne appartenenti alle minoranze religiose, in particolare, più delle donne delle comunità religiose maggioritarie, possono soffrire del paternalismo dello Stato e dell’ignoranza o degli stereotipi che conducono a più interventi legali nella loro vita e a una maggiore regolamentazione della loro espressione religiosa.

I discorsi che incitano all’odio religioso e la diffamazione delle religioni

Un altro aspetto complesso della coincidenza tra la libertà di religione e la libertà di espressione è apparso durante il dibattito per sapere se (e, in caso affermativo, in che modo) lo Stato dovrebbe trattare le forme di espressione che espongono le religioni o i singoli credenti all’odio, al disprezzo, allo scherno o agli stereotipi negativi. L’articolo 20 (2), del Patto internazionale sui diritti civili e politici (PIDCP) dispone che «qualsiasi appello all’odio nazionale, razziale o religioso che costituisca incitamento alla discriminazione, all’ostilità o alla violenza deve essere vietato dalla legge» (15). Gli Stati parti sono obbligati ad applicare le leggi che proibiscono ciò che a volte è conosciuto come «discorso di incitamento all’odio religioso» o «diffamazione delle religioni».

Tali leggi hanno un rapporto complesso sia con la libertà religiosa sia con la libertà di espressione. Da un lato, l’appello all’odio contro le religioni minoritarie può avere un ruolo determinante nel creare le condizioni in cui possono prosperare la discriminazione, l’ostilità o addirittura il genocidio. Questi rischi sono particolarmente seri nelle comunità fortemente divise, dove regna la tensione tra i gruppi religiosi, o che in passato hanno conosciuto la persecuzione religiosa. Quando una comunità religiosa minoritaria si sente minacciata e attaccata, gli individui non possono praticare la propria fede liberamente e senza timore. A causa delle minacce, delle intimidazioni e dei discorsi che incitano all’odio religioso, i membri dei gruppi minoritari faranno anche fatica a esprimersi apertamente sulle questioni essenziali per loro e, per paura di attirare su di sé gli insulti o anche la violenza, si tratterranno dall’utilizzare il diritto di parola per arginare i discorsi che incitano all’odio.

D’altro canto, quando le leggi che condannano l’odio religioso sono troppo ampie, possono talvolta essere problematiche dal punto di vista della libertà religiosa e della libertà di espressione (16). Il discorso religioso può costituire di per sé una forma molto pericolosa di odio religioso – non si può ignorare che i leader religiosi fanno parte di coloro i quali hanno acceso l’animosità verso gli altri gruppi religiosi, hanno predicato la violenza e legittimato la discriminazione. Tuttavia, esistono delle forme di discorsi religiosi che possono impigliarsi nelle leggi sull’odio religioso che minacciano la libertà di religione. In alcune tradizioni religiose, per esempio, la denuncia degli errori delle altre fedi e la proclamazione della religione di cui si fa parte come unica detentrice della verità sono modi essenziali di esprimere le proprie convinzioni religiose. Tuttavia, soprattutto se le leggi sull’odio religioso sono redatte in termini generali, un tale discorso potrebbe essere interpretato come odio religioso. Così, in un caso controverso avvenuto in Australia, due pastori di una piccola chiesa cristiana evangelica sono stati oggetto di una denuncia in virtù del Racial and Religious Tolerance Act (Vic) [Legge sulla tolleranza razziale e religiosa dello Stato di Victoria, ndt] del 2001 per diverse affermazioni fatte sull’islam durante un seminario e in alcune pubblicazioni. Tali dichiarazioni erano numerose e di portata generale. Alcune insinuavano che nell’islam «la donna non ha molto valore», che le persone che chiamiamo «terroristi» sono «in realtà dei veri musulmani (sic) perché hanno letto il Corano… e che ora lo mettono in pratica», lasciavano intendere che il denaro proveniente dal commercio della droga serviva a finanziare il proselitismo musulmano e che la popolazione musulmana in Australia era raddoppiata in 7 anni perché i musulmani controllano il Ministero dell’immigrazione (17). In primo grado, è stato deciso che l’effetto cumulativo di queste dichiarazioni equivaleva alla diffamazione della religione. Ma la sentenza è stata poi annullata dalla Corte d’Appello di Victoria senza specificare se il discorso in questione fosse diffamante oppure no (18). La decisione di primo grado comportava un aspetto particolarmente problematico nella misura in cui il tribunale aveva fatto affidamento sugli elementi controversi della legge islamica: se l’islam era «veramente» una religione di pace o se incoraggiava «veramente» la discriminazione contro le donne. Anche se alcune delle affermazioni fatte dai pastori (come il raddoppio della popolazione e la pressione sul Ministero dell’immigrazione) erano di fatto false e provocatorie, altre, pur essendo esagerate, davano ancora vita al dibattito e alla discussione e non doveva essere il tribunale a decidere sulla loro «veridicità». Questo caso è un esempio dei problemi che possono sorgere con questo genere di legislazione quando i giudici sono chiamati a prendere decisioni difficili su cosa sia un dibattito accettabile, energico (forse anche offensivo o ingiurioso) sulle questioni controverse, e cosa superi il limite generando un odio tale da poter condurre alla violenza o ad altri tipi di mali (19). Le leggi sull’odio religioso rischiano di impedire al pubblico, per paura di cadere nell’illegalità, di partecipare ai dibattiti appassionati ma importanti, in particolare ai dibattimenti che non sarebbero protetti dalla legislazione – è ciò che a volte si definisce l’«effetto dissuasivo» delle leggi che limitano la libertà di espressione: le persone possono autocensurarsi perché temono un eventuale processo. Quando degli interlocutori, tra cui quelli che sostengono una religione particolare e quelli che criticano con forza la religione in generale o una in particolare, temono di   dire ciò che pensano per paura delle conseguenze, vuol dire che è soffocato un dibattito pubblico essenziale su un fenomeno sociale importante.

L’elaborazione della nozione di «diffamazione delle religioni» è stata un approccio ancora più problematico della protezione delle religioni contro i discorsi offensivi. Questo concetto, che sembra costruito sulle nozioni dei diritti umani, come il divieto dei discorsi che incitano all’odio, del razzismo e della xenofobia, è stato presentato dall’Organizzazione della Conferenza islamica, per la prima volta dal Pakistan, nell’aprile 1999, davanti alla Commissione dei diritti umani riunita nella sua 62ª seduta (20), poi dall’Azerbaigian, nel dicembre 2006, davanti all’Assemblea generale delle Nazioni Unite durante la sua 81ª seduta (21). Da allora, la Commissione dei diritti umani e il Consiglio dei diritti umani che lo ha sostituito hanno adottato, a più riprese, delle risoluzioni non vincolanti che condannano la diffamazione delle religioni, ma ciò è stata fonte di controversie fin dall’inizio. La risoluzione del 25 marzo 2010, per esempio, ha ricevuto 20 voti a favore, 17 contrari e 8 astensioni (22).

La diffamazione delle religioni è difatti un concetto nebuloso e le risoluzioni che a essa si riferiscono contengono un certo numero di problematiche sulle quali vi è un grande consenso internazionale e un forte sostegno nella legislazione internazionale dei diritti umani. Ciò riguarda, per esempio, la lotta contro la discriminazione, l’intimidazione o la violenza verso le persone a motivo della loro fede, ma anche la difesa dei luoghi religiosi dagli attacchi. Mentre le risoluzioni mettono l’accento sulla tutela degli individui e dei gruppi dalla violazione dei loro diritti fondamentali, esse si inseriscono nella corrente principale dei diritti umani. Diventano invece più discutibili quando raccomandano di prendere delle misure giuridiche per proteggere la reputazione della religione stessa. Ad esempio, la prima risoluzione che la Commissione dei diritti umani ha votato esprimeva preoccupazione per i media che incitavano «all’intolleranza […] e alla discriminazione verso l’islam e ogni altra religione». Deplorava inoltre profondamente «il fatto che le religioni siano stereotipate in modo negativo» e che «l’islam sia frequentemente e a torto associato alle violazioni dei diritti umani e al terrorismo» (23). Anche se questi stereotipi possono certo condurre all’ostilità verso i seguaci di una religione, proteggendo la religione si rischia di metterla anche al riparo dalla critica legittima, dalle domande, dal dibattito o dai dissensi interni. In una dichiarazione congiunta, i tre Relatori speciali delle Nazioni Unite che hanno delle responsabilità negli ambiti della libertà di religione, della libertà di espressione e del razzismo hanno sottolineato la loro preoccupazione: «Le difficoltà nel dare una definizione oggettiva, a livello internazionale, all’espressione “diffamazione delle religioni” fa sì che il concetto stesso sia esposto ad abuso. A livello nazionale, le leggi sulla blasfemia possono rivelarsi controproducenti nella misura in cui ciò sfoci di fatto nella censura della critica interreligiosa e intrareligiosa. Molte di queste leggi offrono vari livelli di tutela alle diverse religioni e hanno spesso dimostrato di essere utilizzate in modo discriminatorio» (24).

Il concetto di diffamazione delle religioni è stato oggetto di numerose critiche da parte dei politici e degli specialisti. Si temeva soprattutto che desse l’impressione di giustificare le leggi sulla blasfemia e l’apostasia. Di fatto, esso è servito per legittimare le sanzioni inflitte dagli Stati musulmani per i reati effettivamente religiosi come la bestemmia, l’eresia e l’apostasia, e per protestare contro l’islamofobia (ma non contro le altre forme di odio religioso) nei Paesi non musulmani (25). Il primo progetto di risoluzione sulla diffamazione delle religioni, presentato dal Pakistan, condannava unicamente «le nuove manifestazioni di intolleranza e di incomprensione, per non dire di odio, dell’islam e dei musulmani»; e la sua riformulazione in termini più religiosamente neutri ha dato vita a dibattimenti e incontrato resistenze (26). La risoluzione più recente del Consiglio dei diritti umani mette, a più riprese, l’accento sulla necessità di proteggere i musulmani, ma non fa nessuna menzione delle altre comuni forme di persecuzione tra cui quelle di cui sono vittime le minoranze religiose negli Stati musulmani (27). Le legislazioni sull’odio religioso sono volute per proteggere (anche se non lo fanno sempre) le minoranze religiose vulnerabili dalle conseguenze della denigrazione da parte di individui. Se si va al di là delle leggi sull’odio fino al concetto di diffamazione delle religioni, quest’ultimo rischia di essere utilizzato per consolidare il potere e l’autorità della maggioranza religiosa e della sua gerarchia politica e religiosa. Adottando le istituzioni internazionali dei diritti umani e armonizzando parte del linguaggio delle risoluzioni sulla diffamazione delle religioni con quello dei diritti umani, gli Stati che hanno dato il loro sostegno all’avanzamento del concetto di diffamazione delle religioni hanno cercato di legittimare delle misure che, diversamente, costituirebbero degli attentati alla libertà di religione e di espressione.

Il pericolo che comporta l’argomento secondo cui l’ortodossia religiosa richiede la protezione dello Stato è lontano dall’essere ipotetico. Nei recenti rapporti, il Relatore speciale sulla libertà di religione o di convinzione delle Nazioni Unite ha menzionato il frequente ricorso alle leggi nazionali per imporre delle concezioni religiose particolari e per punire coloro che sembra se ne allontanino. Dei nuovi rapporti hanno descritto: le persecuzioni delle comunità ahmadiyya, in Paesi come il Pakistan e l’Indonesia, perché il loro insegnamento dell’islam sembrava discostarsi dalla regola; l’uso esteso, in Pakistan, delle leggi sulla blasfemia contro le minoranze religiose e i musulmani che mettono in dubbio l’ortodossia ammessa; l’introduzione in Iran della pena di morte per apostasia; la proibizione dell’insegnamento religioso privato in Kazakistan; e la costrizione esercitata, in Myanmar, sui cristiani perché distruggessero le loro stesse chiese e i loro simboli religiosi (28). Per giustificare e legittimare tali azioni repressive, si invoca sempre di più, in questi Paesi, la diffamazione o i sentimenti feriti delle maggioranze religiose.

Preghiera ed educazione religiosa a scuola

La libertà religiosa e la libertà di espressione acquistano entrambe un carattere differente quando si trovano nel contesto di un’istituzione pubblica. È il caso, in particolare, di istituzioni come le scuole, le prigioni o le forze armate, dove non si lascia spesso alle persone la libertà di sottrarsi a certi tipi di discorsi religiosi o ad altre espressioni che esse giudicano offensive. Si è verificato che le scuole sono un campo di battaglia particolarmente controverso per le questioni riguardanti la libertà di espressione e di religione. Gli insegnanti e gli studenti credenti che vi trascorrono grande parte del loro tempo possono voler manifestare la loro fede in vari modi durante l’orario scolastico. Ciò può includere l’indossare abiti o simboli religiosi (come quelli di cui si è parlato precedentemente), la preghiera o la partecipazione ad altre forme di espressione religiosa come la lettura della Bibbia o la meditazione. Inoltre, i genitori, o talvolta i figli stessi, possono desiderare che la scuola insegni i valori religiosi o le dottrine o che siano esclusi dal programma scolastico quegli argomenti che secondo loro mettono a repentaglio gli insegnamenti della loro religione (come, per esempio, l’educazione sessuale o l’evoluzionismo). Tuttavia, ci possono essere altri genitori, insegnanti o allievi ostili a queste forme di espressione religiosa o che si sentono oppressi da esse o costretti a parteciparvi.

Il diritto internazionale fornisce alcuni orientamenti per trattare tale questione. L’articolo 18 (4) del PIDCP dichiara: «Gli Stati parti del presente Patto si impegnano a rispettare la libertà dei genitori e, ove sia il caso, dei tutori legali di curare l’educazione religiosa e morale dei figli in conformità alle proprie convinzioni». Questa disposizione dà esplicitamente ai genitori il diritto fondamentale di decidere sull’educazione religiosa e morale dei loro figli ed è stata elaborata in risposta alle pratiche odiose dei regimi totalitari che usavano il sistema educativo per fare in modo che i figli si rivoltassero contro i valori dei genitori.

Tuttavia, il modo preciso in cui questa protezione si sviluppa nella pratica, in particolare nelle scuole pubbliche dove bambini di ogni religione e credenza devono coesistere, è lontano dall’essere chiaro. Le corti e i tribunali in diverse giurisdizioni hanno adottato vari approcci per risolvere queste tensioni. In linea di massima, si conviene che vi è violazione dei diritti umani dal momento in cui si costringono gli alunni a prendere parte a pratiche apertamente religiose o si impone loro di partecipare obbligatoriamente ai corsi di un dato insegnamento religioso confessionale o ad altre forme di espressione religiosa. Alcuni Paesi, dove la separazione tra Chiesa e Stato è molto rigorosa, come gli Stati Uniti d’America, impongono delle limitazioni più rigorose alla collaborazione che le scuole pubbliche possono avere con la religione, anche se questa cooperazione non è obbligatoria (30). Così, nel caso Mc Collum, la Corte suprema ha giudicato che, nel programma scolastico, il sistema dell’«opt’in» [consenso preventivo, ndt], che permetteva ai genitori di iscrivere i loro figli ai corsi di educazione religiosa insegnati nella scuola dai rappresentanti delle diverse religioni, costituiva una violazione dell’Establishment Clause del Primo emendamento della Costituzione degli Stati Uniti. Tale insegnamento, difatti, si realizzava in una proprietà finanziata dai fondi pubblici e necessitava la «stretta cooperazione» delle autorità scolastiche e religiose (31). Il fatto che i bambini che non desiderano partecipare a queste classi potessero seguire in contemporanea altre attività scolastiche laiche è risultato irrilevante (32). Era anche vietato alle scuole di incoraggiare la religione attraverso la preghiera, anche se la partecipazione degli alunni fosse stata volontaria. La Corte suprema ha deliberato che «il sostegno dato dalla scuola a un messaggio religioso è inaccettabile perché è un modo implicito di dire a coloro i quali non vi aderiscono «che sono estranei, non membri a pieno titolo della comunità politica, e a quanti vi aderiscono che sono membri privilegiati della comunità politica» (33).

I tribunali di alcuni altri Paesi e il Comitato dei diritti umani delle Nazioni Unite sono stati un po’ meno prescrittivi, probabilmente in parte perché hanno messo l’accento sulla libertà religiosa senza la complicazione di una clausola di non-establishment. Si sono mostrati pronti ad autorizzare l’insegnamento religioso per quanto i genitori o gli alunni possano veramente scegliere di non assistervi senza condizioni esorbitanti e ingiustificate. Inoltre, l’argomento insegnato (ivi compreso l’informazione sulla religione) non deve essere escluso semplicemente perché alcuni genitori o allievi possano opporsi per motivi religiosi o filosofici al suo inserimento nel programma. In seguito a una richiesta contro un corso di religione e credenze condotto nelle scuole pubbliche norvegesi, la Corte europea dei diritti umani ha riassunto la sua giurisprudenza dei decenni precedenti (34). Essa rileva che l’istruzione religiosa è una materia come un’altra e che la religione o le convinzioni dei genitori devono essere rispettate «nell’intero programma dell’insegnamento pubblico […] Questo obbligo ha una larga applicazione perché vale non solo per il contenuto dell’istruzione e il modo di dispensarla, ma anche nell’esercizio di tutte le funzioni assunte dallo Stato» (35). Gli interessi delle minoranze non possono essere subordinate semplicemente a quelle della maggioranza: deve essere raggiunto un equilibrio «che assicuri alle minoranze un trattamento giusto ed equo e che eviti ogni abuso di una posizione dominante» (36), ma i genitori non hanno il diritto «di lasciare i loro figli nell’ignoranza in materia di religione o di filosofia nell’educazione che ricevono» (37). La Corte europea è stata anche più aperta all’idea che permettere agli alunni di lasciare il corso di religione fosse sufficiente a proteggere i loro diritti, senza sembrare di prendere molto sul serio le difficoltà e le pressioni sociali che ciò può causare nei bambini (38).

I simboli religiosi negli spazi pubblici

La questione dell’esposizione dei simboli religiosi negli spazi pubblici o nelle istituzioni genera una tensione simile a quella che si sente nelle scuole. Tra i casi che hanno sollevato questo problema ci sono quelli che riguardano la presenza del crocifisso nelle aule scolastiche italiane (39), l’esposizione dei dieci comandamenti nei palazzi di giustizia statunitensi (40), e sul terreno del Campidoglio degli Stati Uniti (41), il rifiuto di erigere dei monumenti per le religioni concorrenti (42), l’esposizione di presepi nei consigli comunali (43) e la costruzione delle capanne per celebrare la festa ebraica autunnale di Succot (44). Soprattutto nei Paesi dove vi è un forte predominio storico di un determinato gruppo religioso, alcuni possono stimare che i simboli di questo gruppo non sono semplicemente religiosi ma che fanno parte della cultura generale e che hanno il diritto di essere esposti come riconoscimento del ruolo importante di tale religione in seno alla cultura. Tuttavia altri ritengono tutto ciò una violazione del giusto grado di separazione tra Chiesa e Stato, e temono che la presenza di simboli religiosi faccia delle istituzioni pubbliche dei luoghi ostili e alienanti per coloro i quali appartengono alle minoranze religiose o non sono credenti.

L’abbigliamento religioso può anche creare dei problemi quando è indossato da persone che lavorano nel settore pubblico, perché ci si potrebbe domandare se ciò avviene per un proselitismo inappropriato o se significa che lo Stato approva la religione di chi indossa tali abiti religiosi. È, in generale, il caso degli impiegati le cui funzioni li portano a essere in contatto con il pubblico, e in modo particolare di quelli che hanno una posizione di autorità, come un insegnante o un giudice (45). Anche se l’abito religioso è indossato da privati cittadini, quando si tratta di impiegati del settore pubblico ciò può sollevare dei dubbi sul fatto che un tale modo di vestirsi non sia in sé un’inappropriata imposizione di un simbolismo religioso negli spazi pubblici.

La passione con la quale sono dibattute tali questioni si può percepire dalle reazioni del pubblico alla sentenza della Corte europea dei diritti dell’uomo sul caso Lautsi contro Italia detto «del crocifisso italiano» (46). Il caso era stato sollevato dalla madre di due bambini che frequentavano una scuola pubblica dove sui muri erano affissi dei crocifissi. La madre obiettava che ciò interferiva con la sua libertà religiosa e anche con il suo diritto di educare i figli secondo le sue credenze e i suoi valori. Contestava anche una direttiva del Ministero dell’Istruzione che raccomandava la presenza del crocifisso nelle classi. La ricorrente ha sostenuto che l’esposizione del crocifisso «ha come ripercussione una pressione incontestabile sui minori e dà la sensazione che lo Stato sia lontano da coloro che non si riconoscono in questa confessione cristiana. La nozione di laicità impone allo Stato di essere neutrale e di mantenersi equidistante da tutte le religioni; non dovrebbe essere percepito come più vicino ad alcuni cittadini invece che ad altri». Per contro, il governo ha sostenuto che l’esposizione della croce non era «il segno di una preferenza per una religione, in quanto essa richiamerebbe solo una tradizione culturale e dei valori umanistici condivisi da altre persone diverse dai cristiani». Lo Stato ha riconosciuto di avere il dovere di neutralità e di imparzialità, ma ha sottolineato di non averli violati in questo caso. Pur ammettendo che «il simbolo del crocifisso ha una pluralità di significati», la Corte europea dei diritti dell’uomo ha giudicato che il suo «significato religioso è predominante». Ha quindi concluso che la sua presenza aveva violato il diritto del genitore di educare suo figlio secondo le proprie convinzioni (articolo 2 del protocollo n. 1) congiuntamente con il diritto alla libertà di religione o di convinzione (articolo 9 della Convenzione) (47). La Corte ha così ragionato: «La presenza del crocifisso può facilmente essere interpretata da allievi di qualsiasi età come un segno religioso ed essi si sentiranno istruiti in un ambiente scolastico influenzato da una determinata religione. Questo può essere incoraggiante per allievi religiosi, ma anche turbare allievi di altre religioni o atei, in particolare se appartengono a minoranze religiose. La libertà di non credere in alcuna religione non si limita all’assenza di servizi religiosi o dell’insegnamento religioso: si estende alle pratiche e ai simboli che esprimono una credenza, una religione o l’ateismo. Questa libertà merita una protezione particolare se è lo Stato che esprime una credenza e se la persona è messa in una situazione di cui non può liberarsi o soltanto accollandosi degli sforzi   e un sacrificio sproporzionati» (48).

La decisione della Corte europea (per la quale vi è stato il ricorso in appello davanti alla Grande Camera), è stata accolta con veemente condanna dai politici italiani, dal Vaticano e da gran parte dell’opinione pubblica italiana. L’elevata retorica sul posto dei simboli religiosi nella vita pubblica e il modo in cui questi problemi possono essere percepiti, per avere implicazioni culturali significative, sono visibili nella risposta del (ex ndt) Ministro italiano dell’istruzione, Maria Stella Gelmini, che avrebbe dichiarato: «Nessuno, nemmeno una Corte europea ideologizzata, riuscirà a cancellare la nostra identità». Un altro (ex ndt) Ministro del governo ha aggiunto: «La Corte europea ha calpestato i nostri diritti, la nostra cultura, la nostra storia, le nostre tradizioni e i nostri valori» (49). Tali dichiarazioni riflettono le elevate poste in gioco culturali che sono legate ai simboli religiosi in alcuni contesti, ma le passioni che le abitano rischiano di compromettere un regolamento negoziato delle dispute concernenti tali questioni.

Conclusione

Il rapporto tra la libertà di religione e la libertà di espressione è complesso. I credenti manifestano le loro convinzioni con dichiarazioni esplicite ma anche con una serie di simboli che sono importanti per loro. Senza una protezione solida della libertà di espressione, numerose pratiche religiose sono minacciate: a questo riguardo, le due libertà hanno una relazione importante e complementare. Inoltre, alcune forme di espressione costituiscono una minaccia per chi crede o per la libertà di religione. I discorsi che incitano all’odio, la diffamazione, la bestemmia e altre forme verbali rivolte contro le convinzioni religiose sono spesso difficili da sopportare per alcuni credenti e possono portare a misure restrittive della libertà di espressione e non riescono a proteggere i credenti dai pregiudizi, dalle offese   e dalle molestie. D’altra parte, l’esposizione di simboli religiosi nelle istituzioni pubbliche o l’insegnamento della religione nelle scuole pubbliche può apparire   ad alcuni come un riconoscimento del significato culturale di una particolare reli- gione in una società. Per altri, invece, tali espressioni sembreranno oppressive e alienanti, associando lo Stato a un punto di vista religioso particolare a scapito delle altre forme di religione o di convinzione. L’uso di abiti religiosi ha un valore religioso e rappresentativo considerevole, ma può sollevare questioni complesse in relazione ai diritti delle donne o alla sicurezza nazionale.

Non vi è un modo semplice o una formula pronta per risolvere queste tensioni. La libertà di religione o di convinzione e la libertà di espressione non beneficiano, né l’una né l’altra, di una protezione assoluta nel diritto internazionale o nella maggior parte delle legislazioni nazionali che riconoscono che questi diritti devono cedere talvolta il passo ad altre considerazioni importanti. Quando si tratta di trovare delle soluzioni concrete ai problemi particolari in determinati Paesi, i fattori culturali e politici possono avere altrettanta importanza delle considerazioni giuridiche e delle preoccupazioni per i diritti umani. È probabile che i problemi trattati in questo articolo continueranno ad accentuarsi negli anni futuri. Alcune correnti religiose sono diventate intolleranti verso le forme di espressione che non sono rigorosamente conformi all’ortodossia religiosa; e, nello stesso tempo, si sta scavando un fossato tra chi desidera che l’espressione della religione sia più visibile nella sfera pubblica e chi si augura di vedere meno simboli religiosi. La globalizzazione implica che quando una disputa sui crocifissi in Italia o sulle vignette in Danimarca esplode, può propagarsi, nello spazio di pochi giorni, nel mondo intero e causare serie perturbazioni sociali in Paesi molto lontani da quelli in cui è sorta. In tali circostanze, le società e i tribunali rischiano di avere a che fare con un più ampio ventaglio di problemi complessi nel crocevia tra religione ed espressione e si assumono le conseguenze politiche e sociali delle loro decisioni che saranno sempre più numerose.

 

CAROLYN EVANS – Docente di Diritto e direttrice aggiunta del Centro Studi comparativi costituzionali della facoltà di Legge di Melbourne, in Australia. Questo articolo è basato in parte sui lavori di ricerca condotta nell’ambito di un progetto di studio sulla legislazione della libertà religiosa e della non discriminazione, finanziata dall’Australian Research Council. L’autrice ringrazia Duncan Kauffman per l’aiuto datole nelle ricerche per questo articolo. Una versione anteriore del testo è stata pubblicata nel lavoro di John Witte Jr e M. Christian Green, Religion and Human Rights, Oxford University Press, Oxford, 2011, ed è utilizzata con l’autorizzazione dell’autrice e dell’editore. Articolo edito in Coscienza e Libertà 45/2011.

NOTE

1 Vedere, per esempio, Homa Hoodfar, «The Veil In Their Minds and On Our Heads: Veiling Practices and Muslim Women», in E. Castelli (a cura di), Women, Gender, Religion: A Reader, Palgrave, New York, 2001, p. 420-446; W. Shadid e P. S. van Koningsveld, «Muslim Dress in Europe: Debates on the Headscarf», in Journal of Islamic Studies, n. 16, 2005, p. 35; S. Michelman, «Chan- ging Old Habits: Dress of Women Religious and Its Relationship to Personal and Social Identity», in Sociological Inquiry, n. 67, 1997, p. 350; J. Mayo, A History of Ecclesiastical Dress, BT Batsford, Londra, 1984. Una parte di questi scritti menziona l’ambivalenza circa l’abbigliamento religioso e i molteplici significati attribuiti a quest’ultimo da alcuni di coloro che lo indossano.

2 R (SB) v. Governors of Denbigh High School, 2007, 1 AC 100.

3 Comitato dei diritti umani delle Nazioni Unite, Patto internazionale relativo ai diritti civili e politici, Osservazione generale 22: Il diritto alla libertà di pensiero, di coscienza e di religione, Art. 18, Add. 4, UN Doc Ccpr/C/21/Rev.1/Add.4, (‘General Comment 22’), 1993.

4 A. Jahangir, Rapporto della Relatrice speciale sulla libertà di religione o di convinzione – Adden- dum – Riassunto dei casi portati davanti ai governi e delle risposte ricevute, UN Doc. A/Hrc/7/10/ Add.1 [125], 28 febbraio 2008.

5 Gareth Davies, «Banning the Jilbab: Re ections on Restricting Religious Clothing in the Light of the Court of Appeal, in SB v. Denbigh High School, Decision of 2 March 2005», in European Constitutional Law Review, vol. 1, 2005, p. 511-530, osserva che una «ondata di divieti e restrizioni sugli abbigliamenti religiosi sta sattraversando l’Europa».

6 Vedere, ad esempio, Bbc News Online, «Singapore headscarf ban faces lawsuit», 22 aprile 2002 su   http://news.bbc.co.uk/2/low/asia-pacific/1943999.stm

7 Dahlab v. Svizzera, 2001-V Cedh, 449.

8 Leyla Şahin v. Turchia, 2005-XI Cedh, 175; Dogru v. Francia, 2009-49 Cedh, Rep. 8.

9 D. Charter, «Belgium Poised to be First in EU to Ban the Burqa», in The Times, Londra, 1 aprile 2010. Per una spiegazione delle misure prese in Egitto che sono servite da riferimento a un certo numero di Paesi europei per giustificare il divieto del velo, vedere «Niqab banned at al-Azhar Uni- versity», Dawn.com, 9 ottobre 2009: http://www.dawn.com/news/914010/niqab-banned-at-al-azhar-university

10 Per un’analisi più dettagliata, cfr. Bahia G. Tahzib-Lie, «Dissenting Women, Religion or Belief and the State: Contemporary Challenges that Require Attention», in T. Lindholm et al., Facilitating Freedom of Religion or Belief: A Deskbook, Martinus Nijhoff, La Haye, 2004, p. 455.

11 Cfr. Multani v. Commission scolaire Marguerite-Bourgeoys, 2006, 1 SCR 256 (processo riguardante un alunno); Hothi v. La Reine, 1985, 33 Man R (2d) 180 (processo penale).

12 Assemblea generale plenaria del Consiglio di Stato, Étude relative aux possibilités juridiques d’interdiction du port du voile intégral, 25 marzo 2010, rapporto consultabile su: http://www.conseil-etat.fr/cde/media/document/avis/etude_vi_30032010.pdf; Henry Samuel, «French Bur- ka Ban “Unconstitutional”», in The Daily Telegraph, Londra, 31 marzo 2010.

13 Şahin c. Turchia, 2005-XI CEDH, 175, opinione contraria del giudice Tulkens [11].

14 G. Davies, «Banning the Jilbab: Reflections on Restricting Religious Clothing in the Light of the Court of Appeal, in SB v. Denbigh High School, Decision of 2 March 2005», in European Constitutional Law Review, vol. 1, 2005, p.   518-519.

15 Aperto alla firma il 16 dicembre 1966, art. 20(2), ed entrato in vigore il 23 marzo 1976. Re. A.G. 2200A (XXI), 21 UN Gaor Supp. (N. 16), at 52, UN Doc. A/6316 (1966).

16 Sui problemi complessi posti, in generale, dai discorsi che incitano all’odio, vedere I. Hare, J. Weinstein, Extreme Speech and Democracy, Oxford University Press, Oxford, 2008.

17 Catch the Fire Ministries Inc. and Others v. Islamic Council of Victoria Inc. (2006) 15 VR 207 [41], [47], [60], [62]. In questa sezione della sentenza, il giudice d’appello Nettle critica il modo in cui il giudice Higgins [del tribunale civile e amministrativo di Victoria, ndt] ha parafrasato le dichiarazioni dei due pastori, ed egli espone queste ultime più in dettaglio e nel loro contesto – ciò non è possibile riprodurlo in questo articolo.

18 La Corte d’appello ha deliberato che la decisione del tribunale conteneva degli errori e, siccome spettava al giudice amministrativo riconsiderare la sua posizione, non toccava a essa determinare in modo definitivo i meriti della richiesta. Ha preferito rinviare il caso davanti al tribunale affinché fosse risolto da un nuovo giudice. Le parti sono giunte poi a un accordo amichevole, così che non è stato dato nessun giudizio definitivo utile, cioè se il comportamento incriminato costituiva o no una violazione della legge [la Rrta, ndt].

19 Cfr., ad esempio, R. Ahdar, «Religious Vilification: Confused Policy, Unsound Principle and Unfortunate Law», in University of Queensland Law Journal, vol. 26, 2007, p. 293; D. Feenan, «Religious Vilification Laws: Quelling Fires of Hatred?», in Alternative Law Journal, vol. 31, 2006, p. 153; L. McNamara, «Salvation and the State: Religious Vilification Laws and Religious Speech», in K. Gelber, A. Stone (a cura di), Hate Speech and Freedom of Speech in Australia, Federation Press, Sydney, 2007, p. 45-68; D. Meagher, «The Protection of Political Communication under the Austra- lian Constitution», in University of New South Wales Law Journal, vol. 28, 2004, p. 30.

20 Commissione dei diritti umani delle Nazioni Unite, La diffamazione delle religioni, Chr Res. 1999/82, 55a sess., 62a seduta plenaria, UN Doc. E/CN.4/1999/82 L.40/Rev.1, 30 aprile 1999.

21 Assemblea generale delle Nazioni Unite, Lottare contro la diffamazione delle religioni, GA Res. 13/16, UN Gaor, 61a sess, 81a seduta plenaria, Ordine del giorno 67(b), UN Doc,. A/ Res/61/164, 19 dicembre 2006.

22 Consiglio dei Diritti umani delle Nazioni Unite, Lottare contro la diffamazione delle religioni, Hrc Re. 13/16, 13a sess., 42a seduta, Ordine del giorno 9, UN Doc. A/Hrc/Res/13/16, 25 marzo 2010.

23 Commissione dei Diritti umani delle Nazioni Unite, La diffamazione delle religioni, Chr Res. 1999/82, 55a sess, 62a seduta, UN Doc. E/CN.4/1999/L.40/Rev.1, 30 aprile 1999.

24 A. Jahangir, G. Muigai, F. La Rue, Dichiarazione congiunta sulla libertà di espressione e l’incitamento all’odio razziale o religioso della Relatrice speciale sulla libertà di religione o di convinzione, del Relatore speciale sulle forme contemporanee di razzismo, discriminazione razziale e xenofobia e del Relatore speciale sulla promozione e la protezione del diritto alla libertà di opinione e di espressione, Ufficio dell’Alto Commissario ai diritti umani, Riunione tenuta a margine della Conferenza d’esame di Durban, Ginevra, 22 aprile 2009, http://www2.ohchr.org/english/issues/opinion/docs/SRJointstatement22April09New.pdf.

25 R. J. Dobras, «Is the United Nations Endorsing Human Rights Violations? An Analysis of the United Nations’ Combating Defamation of Religions Resolutions and Pakistan’s Blasphemy Laws», in Georgia Journal of International and Comparative Law, vol. 37, 2009, p. 339; J. Rivers, «The Question of Freedom of Religion or Belief and Defamation of Religion», in Religion and Human Rights: An International Journal, vol. 2, 2007, p. 113.

26 Cfr. L. Langer, «The Rise (and Fall?) of Defamation of Religion», in Yale Journal of International Law, vol. 35, 2010, p. 257-258.

27 Consiglio dei Diritti umani delle Nazioni Unite, Lottare contro la diffamazione delle religioni, Hrc Res. 13/16, 13a sessione, 42a seduta, Ordine del giorno 9, UN Doc., A/Hrc/Res/13/16, 25 marzo 2010.

28 A. Jahangir, Rapporto della Relatrice speciale sulla libertà di religione o di convinzione – Addendum – Riassunto dei casi portati davanti ai governi e delle risposte ricevute, UN Doc. A/ Hrc/7/10/ Add.1, 28 febbraio 2008, [178]-[182] (trattamento inflitto ai cristiani del Myanmar); A. Jahangir, Rapporto della Relatrice speciale sulla libertà di religione o di convinzione – Addendum – Riassunto dei casi portati davanti ai governi e delle risposte ricevute, UN Doc. A/Hrc/10/8/ Add.1, 16 febbraio 2009, [55]-[60] (trattamento inflitto alla comunità ahmadi in Indonesia), [95]- [100] (pena di morte per apostasia in Iran), [117]-[121] (divieto dell’insegnamento religioso privato in Kazakistan), [158]-[161] (trattamento inflitto alla comunità ahmadi in Pakistan); A. Jahangir, Rapporto della Relatrice speciale sulla libertà di religione o di convinzione – Addendum – Riassunto dei casi portati davanti ai governi e delle risposte ricevute, UN Doc. A/Hrc/13/40/Add.1, 16 febbraio 2010, [194] (trattamento inflitto alla comunità ahmadi in Pakistan).

29 Comitato dei diritti umani delle Nazioni Unite, Patto internazionale sui diritti civili e politici, Osservazione generale 22 [6]: «Il Comitato nota che l’educazione pubblica che include l’insegnamento di una religione o di una convinzione particolare è incompatibile con il paragrafo 4 dell’articolo 18, a meno che preveda delle esenzioni o delle possibilità di scelta non discriminatorie corrispondenti alla volontà dei genitori e dei tutori». Art. 18, Add. 4, UN Doc. Ccpr/C/21/Rev.1/Add.4, (General Comment 22’), 1993.

30 Vedere, ad esempio, Illinois ex rel McCollum v. Board of Education, 333 US 203, 1948; School District of Abingdon Township v. Schempp, 374 US 203, 1963; Wallace v. Jaffree, 472 US 38, 1985; Edwards v. Aguillard, 482 US 578, 1987; Kitzmiller v. Dover Area School District, 400 F. Supp. 2d 707, 2005.

31 McCollum v. Board of Education, 333 US 203, 1948, 333 US at 464, (J. Black, parere della Corte).

32 Id at 472-75, (J. Frankfurter, opinione concordante).

33 Santa Fe Independent School District v. Doe 530 US 290 at 309, 2000, (J. Stevens, parere della Corte) che cita Lynch v. Donnelly 465 US 668 at 688, 1984, (J. O’Connor, opinione concordante).

34 Folgerø v. Norway, 2008, 46 Ehrr 47 at 1186-7. Tra le principali sentenze precedenti della Corte su tale argomento: Kjeldsen, Busk Madsen and Pedersen v. Denmark, 1976, 23 Echr. (ser. A); 1976, 1 Ehrr 711, (‘Pedersen v. Denmark’); Campbell and Cosans v. the United Kingdom (1982) 48 Echr (ser A); 1982, 4 Ehrr, 293.

35 Folgerø v. Norway, idem. Ciò non impegna la scuola a conformarsi a qualsiasi volontà o preferenza passeggera dei genitori, ma unicamente alle «opinioni che hanno un certo rigore, serietà, coerenza e importanza».

36 Idem, at 1187.

37 Ibidem, at 1188-9. Vedere anche: The Office for Democratic Institutions and Human Rights Advisory Council of Experts on Freedom of Religion or Belief, Toledo Guiding Principles on Teaching About Religions and Beliefs in Public Schools, Osce/Odihr, 2007. Consiglio consultivo di esperti sulla libertà di religione e di convinzione dell’Osce (Organizzazione per la Sicurezza e la Cooperazione in Europa), Principi direttivi di Toledo sull’insegnamento relativo alle religioni e convinzioni nelle scuole pubbliche, Iesr – Istituto europeo di scienze delle religioni, aggiornati il 01/04/2008, URL, consultabile in francese su: http://www.iesr.ephe.sorbonne.fr/index4392.html.

38 Anche se la Corte ha avuto un po’ più seria considerazione per i problemi legati all’«opting out» [clausola di esenzione] in Folgerø v. Norwey, 2008, 46 Ehrr,   47.

39 Lautsi v. Italy (Corte europea dei diritti umani, Seconda sezione, Applicazione No 30814/06, 3 novembre 2009). Vedere anche Capitol Square Review Board v. Pinette, 515 US 753, 1995.

40 McCreary County, Kentucky v. Aclu of Kentucky, 545 US 844, 2005.

41 Van Orden v. Perry, 545 US 677, 2005.

42 Pleasant Grove City, Utah v. Summum, 129 S. Ct. 1125, 2009.

43 County of Allegheny v. Aclu of Greater Pittsburgh, 492 US 573, 1989; Lynch v. Donnelly, 465 US 668, 1984.

44 Syndicat Northcrest v. Amselem, Scc 47, 2004.

45 H. Bastian, «Religious Garb Statutes and Title VII: An Uneasy Coexistence», in Georgetown Law Journal, vol. 80, 1991-1992, p. 211; D. Davis, «Reacting to France’s Ban: Headscarves and Other Religious Attire in American Public Schools», in Journal of Church and State, vol. 46, 2004, p. 221; Human Rights Watch, «Discrimination in the Name of Neutrality: Headscarf Bans for Teachers and Civil Servants in Germany», rapporto di febbraio 2009 consultabile in inglese su: http://www.hrw. org/en/node/80829/section/1; K. Klare «Power/Dressing: Regulation of Employee Appearan- ce», in New England Law Review, vol. 26, 1991-1992, p. 1395; S. Langlaude, «Indoctrination, Secularism, Religious Liberty and the Echr», in International and Comparative Law Quarterly, vol. 55, 2006, p. 929; H. Lauer Schachter, «Public School Teachers and Religiously Distinctive Dress: A Diversity-Centred Approach», in Journal of Law and Education, vol. 22, 1993, p. 61.

46 Lautsi v. Italy, Applicazione No 30814/06 (Unreported, European Court of Human Rights, Seconda sezione, 3 novembre 2009).

47 Idem, at [32] (argomentazione del richiedente), [40], (argomentazione del governo imputato), [51], [57]-[58] (decisione della Corte).

48 Idem, at [55].

49 J. Hooper, «Human Rights Ruling Against Classroom Crucifixes Angers Italy», in The Guardian, Londra, 3 novembre 2009. Cfr. anche R. Owen, «Italy Challenges Ruling That Crucifix in Class Violates Religious Freedom », in The Times, Londra, 3 novembre 2009.

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