Il tema che mi è stato proposto è molto ampio, ma proverò a seguire un filo, senza nessuna pretesa di abbracciare l’intera area delle questioni aperte. Con riferimento al titolo della relazione conclusiva che mi è stata assegnata quest’oggi, confermo anch’io che la libertà religiosa si afferma in Italia in termini più problematica che in altri paesi, perché troppi sono i nodi non ancora sciolti, e anche qui ho sentito sostenere da chi mi ha preceduto l’esigenza di una legge sulla libertà religiosa; tema che attraversa il dibattito italiano da molto tempo. Sarebbe -uso il condizionale considerando la situazione della politica italiana- in effetti un provvedimento ineludibile, perché voi sapete bene come la situazione sia estremamente aggrovigliata per la molteplicità delle fonti, per il modo in cui si procede sul terreno delle intese, per i tentativi che ogni tanto vengono fatti, anche da parte del governo, ma che tante volte sembrano più un modo per eludere il tema generale che non per affrontarlo nello specifico. Posso ricordare in proposito la Carta dei valori della cittadinanza e dell’integrazione al tempo del governo Amato; poi c’è stata la Conferenza permanente sul dialogo religioso e poi, nel gennaio del 2012, l’Osservatorio sulla libertà religiosa. Devo dire che non mi pare che questi tentativi abbiano dato grandi risultati. E questo è il mio punto di partenza.

Libertà religiosa e cittadinanza

La seconda considerazione che vorrei fare è che trovo molto corretto mettere in relazione libertà religiosa e cittadinanza, però, voglio subito chiarire che mi riferirò alla categoria della «cittadinanza» non considerandola esclusivamente secondo l’uso tradizionale, ovvero come appartenenza formalizzata a una realtà territoriale. Quest’ultimo è il significato storico che le è stato dato, e oggi assume caratteri ancora più nettamente divisivi ed escludenti, tanto che il tema riecheggiato qui lo mette in evidenza. Ma c’è un’altra nozione di cittadinanza che terrò in considerazione, forse più della prima -pur non negando il legittimo fondamento giuridico della prima- cioè: la cittadinanza intesa come patrimonio di diritti che ciascuno di noi porta con sé, quale che sia il luogo del mondo in cui si trovi. Tant’è che oggi si parla di diritti di cittadinanza riferendosi a quei diritti che non possono essere negati a una persona per il fatto che è cittadino di un altro paese, e neppure partendo dalla condizione che è entrata irregolarmente o illegalmente in un paese. Esistono sentenze della Corte costituzionale le quali affermano chiaramente che ci sono diritti che vanno riconosciuti anche al migrante che si trova in una situazione di permanenza illegale in un paese. Per esempio: la persona non può vedersi negato il diritto all’istruzione. C’è stato un tentativo, voi lo ricorderete, nel comune di Milano, di escludere dall’istruzione alle scuole per l’infanzia i figli degli immigrati irregolari e, per fortuna, allora il ministro intervenne. Ma c’è stato il tentativo, altrettanto grave, di vincolare i medici ai quali si presentavano, soprattutto nelle strutture pubbliche, dei migranti irregolari di denunciare questa condizione, il che significava impedire che queste persone potessero ottenere le cure mediche. Il diritto alla salute non dipende dall’essere cittadino di un paese,   è una prerogativa legata a un diritto fondamentale della persona. Ecco perché io penso che l’allargamento dell’orizzonte sia indispensabile.

Libertà religiosa nella sfera privata e in quella   pubblica

Andando oltre nel mio discorso, aggiungo che nel momento in cui oggi parliamo della libertà religiosa, ci riferiamo a qualcosa che accompagna non soltanto la libertà di culto ma, in qualche modo, la gestione ordinaria della vita quotidiana. Molto sommariamente, cercherò di seguire questa linea. La costituzione affronta questo tema sul terreno dell’uguaglianza, che è il suo terreno storico, e lo affronta altresì sul terreno dell’esclusività della competenza statale a regolare i rapporti tra lo Stato e le confessioni religiose, lo fa nei due notissimi articoli 7 e 8. È proprio l’articolo 8 però, nel modo in cui viene attuato soprattutto il primo comma, che è messo concretamente in discussione, a causa dell’accesso asimmetrico alle garanzie e alle tutele legislative che numerose confessioni subiscono rispetto ad altre, e che in sé rappresenta un indebolimento del pluralismo. Questo è un dato sul quale credo non ci sia molto da discutere. Vorrei però fare riferimento a due documenti internazionali che sono la Convenzione europea dei diritti dell’uomo e la Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea, perché ormai la dimensione sovra-nazionale e internazionale, soprattutto all’interno dell’Unione Europea, ha rilevanza diretta sulle vicende interne. Mi basta ricordare il caso clamoroso ancora discusso del crocefisso che è stato affidato alla Corte europea dei diritti dell’uomo con due decisioni sulle quali tornerò più avanti.

L’articolo 9 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo, che leggerò rapidamente, afferma: «Ogni persona ha diritto alla libertà di pensiero, di coscienza e di religione; tale diritto include la libertà di cambiare religione o credo, così come la libertà di manifestare la propria religione o il proprio credo individualmente o collettivamente, in pubblico o in privato, mediante il culto, l’insegnamento, le pratiche e l’osservanza dei riti». Poi c’è una clausola limitativa che ricompare, la possibilità di introdurre limitazioni compatibili con una società democratica.

È un po’ più articolato il discorso della Carta dei diritti fondamentali dove si parla della religione, ovviamente nell’articolo in cui si affronta il tema dell’eguaglianza o, meglio, della discriminazione. Se ne parla poi in due articoli ma, prima di fare un riferimento esplicito, vorrei ricordare un tema che ha accompagnato molto la discussione, e cioè se dovessero essere menzionate o meno, nel Preambolo, prima della Carta poi del Trattato, le «radici cristiane» dell’Europa. È stato un bene avere abbandonato questa linea, sia perché questo avrebbe determinato problemi per l’adesione di nuovi paesi all’Unione Europea – c’era un momento in cui l’ammissione della Turchia sembrava molto vicina – ma soprattutto perché avrebbe determinato, come dichiarò esplicitamente l’allora presidente della Repubblica francese J. Chirac quando si discuteva la Convenzione nel 2000, che la Francia non avrebbe potuto firmare una Carta dei diritti che facesse riferimento alle radici cristiane. Infatti, ciò era in conflitto con la Costituzione francese che definisce la Repubblica come laica. Personalmente, credo sia stata una scelta corretta quella di rinunciarvi, perché questo avrebbe implicato inevitabilmente, al di là delle questioni che ho poc’anzi ricordato, che sono più propriamente politiche, l’interpretazione dell’intera Carta: infatti, a quelpunto, la si sarebbe dovuta leggere tenendo conto del riferimento alle radici cristiane dell’Europa. Quindi, sarebbe diventato un criterio interpretativo dell’intera Carta che avrebbe così, alla radice, contraddetto in qualche misura il principio del pluralismo e dell’eguaglianza, che è poi affermato all’interno della medesima Carta. Però, com’è stato risolto il problema? Con due norme, una che è molto vicina per formulazione e struttura all’articolo della Convenzione europea dei diritti dell’uomo che ho già letto e, sostanzialmente, il primo comma dell’articolo 10 è riproduttivo di quell’articolo. Poi, si dice che il diritto all’obiezione di coscienza è riconosciuto secondo le leggi nazionali che ne disciplinano l’esercizio.

Ma la Carta non si è fermata a questa formulazione perché poi, nell’articolo 21, ma in realtà nell’articolo 22, ha usato questa formula sulla quale io richiamo l’attenzione: «L’Unione rispetta la diversità culturale, religiosa e linguistica». Quest’articolo potrebbe essere letto, ed è stato anche letto, come una non attribuzione di un privilegio alla dimensione religiosa, perché sono elencati insieme «diversità culturali», «religiose» e «linguistiche». Quindi, la diversità religiosa, e il fenomeno religioso in quanto tale, non trova nella carta un riconoscimento superiore a quello di altre forme di diversità che qui sono elencate e indicate come diversità culturali e linguistiche. Detto questo, il discorso sulla libertà religiosa, nella prospettiva che ho cercato di indicare, cioè quella della cittadinanza, vista nella dimensione dei diritti della cittadinanza, non di appartenenza a un determinato Stato, e della libertà religiosa come componente quotidiana della vita delle persone, per chi evidentemente è credente ha portato qualcuno a dire che ormai siamo di fronte a un passaggio dalla libertà religiosa ai diritti individuali. La libertà religiosa, in altra misura, sarebbe uno dei modi attraverso i quali il riconoscimento e l’esercizio dei diritti individuali viene illuminato.

Questa è forse una forma estrema, è probabile che sia così, però conferma in qualche modo la necessità di guardare alla libertà religiosa in una molteplicità di direzioni. La libertà religiosa, dunque, non la dobbiamo guardare solo nell’ambito della sfera privata o in quella della sfera pubblica. È chiaro che non è possibile creare una separazione netta tra queste due sfere, vi sono molte connessioni. Non possiamo quindi regolare in una maniera ciò che appartiene alla sfera privata e in un’altra, completamente diversa, ciò che riguardala sfera pubblica. Certo, in Italia, e non solo, tutto è reso più complesso dal contesto che si è venuto creando negli ultimi anni – beninteso non decenni ma anni – perché siamo passati da una situazione nella quale c’era una vera o presunta omogeneità – sia, per esempio, da un punto   di vista dei valori, sia per quanto riguarda le regole – a una situazione estremamente eterogenea. Non si pensava – faccio due soli esempi – che ci fosse un problema di regole pubbliche per quanto riguardava l’alimentazione nelle scuole o nelle carceri. Semmai, si poteva pensare a quali fossero le tabelle nutrizionali; ma non c’era un problema del tipo: se ci sono persone che hanno culturalmente abitudini alimentari diverse, queste devono essere rispettate. Il venerdì, in genere, in passato più per consuetudine che per regole, si offriva pesce piuttosto che carne. Adesso anche nel settore alimentare ci sono regole che riguardano l’alimentazione sia in carcere sia nelle scuole. Quindi, questo è un mutamento di contesto che fa sì che l’omogeneità che avevamo dietro le spalle, e che ci faceva apparire alcune questioni come tipiche di altri paesi o sostanzialmente irrilevanti, oggi va interamente riarticolata. Anche altri aspetti, per esempio, la necessità di rispettare criteri religiosi quando si stabilisce un concorso pubblico, un esame di Stato. Tutte queste regole sono entrate progressivamente per il mutamento del contesto, per l’articolarsi della società, per la compresenza di culture diverse e, se usiamo questa lettura che può apparire anche riduttiva, conseguenza dell’entrata di culture diverse, anche di religioni diverse all’interno del nostro sistema. E quindi, considerando la società italiana nella sua attuale situazione composita, non possiamo sfuggire a questo dato sociale che in sé non è istituzionale, ma che poi impone anche l’intervento delle istituzioni. Altrimenti sarebbe concreto il rischio della discriminazione che può attuarsi in due modi: sia quando si trattano in modo diverso situazioni uguali, sia quando si trattano in modo eguale situazioni diverse. Se io tratto con lo stesso metro l’alimentazione di persone che non appartengono alla Chiesa cattolica – che ha, ammesso che l’abbia ancora, un unico interdetto: quello di non mangiare carne di venerdì – come l’alimentazione di ebrei o musulmani, evidentemente introduco una discriminazione, perché il principio di eguaglianza deve tener conto della diversità. Questa è la lettura più complessa, ma ormai assolutamente accettata. La Corte costituzionale in questo senso è stata molto- DOSSIER – Libertà religiosa e cittadinanza, aspetti giuridici e reciproche connessioni esplicita. Naturalmente, all’interno di questo contesto italiano abbiamo una situazione più impegnativa rispetto al passato perché, proprio per il non risolto problema della disciplina generale sulla libertà religiosa, rimangono alcuni elementi contraddittori.

Criterio numerico?

I diritti si rispettano in ragione di un certo modo d’essere e non in ragione della quantità più o meno rilevante di coloro che ne chiedono il riconoscimento. Devo dire che qualche volta questo tema purtroppo ritorna, perché si dice: ma quanti sono?

De Gasperi parlò una sola volta all’Assemblea costituente – si occupava del governo del paese – e, a proposito della discussione intorno all’articolo 7 della Costituzione, usò un’espressione dialettica che all’epoca, ricordo, risultò molto sgradevole. In quegli anni ci furono problemi per molte minoranze religiose: erano anni di intolleranza religiosa anche quelli che seguirono all’entrata in vigore della Costituzione, tant’è che l’ambasciata americana dovette intervenire per evitare che talune confessioni vedessero ostacolato il loro culto e la loro testimonianza in Italia. L’espressione che mi colpì, e mi colpisce molto, data la straordinaria apertura della persona, fu quando disse che, in realtà, non possiamo farci troppo carico del fatto che ci sia una minoranza ebraica quantitativamente limitata e addirittura, ecco il punto che mi sciocca ancora adesso, dopo le persecuzioni è ridotta di numero in modo considerevole. L’affermazione torna ai miei occhi molto inquietante, perché tutte le volte che questi grandi fenomeni che riguardano la coscienza delle persone vengono misurati con criteri quantitativi, siamo su una strada sbagliata.

Questioni etiche

Non ho bisogno di molte argomentazioni per sottolineare o per dare evidenza e confermare quello che ho detto prima: la religione ormai accompagna anche le controversie originate dal pluralismo religioso, e non solo da quello, ma dalla dialettica tra credenti e non credenti. Come si usa dire, accompagna la vita quotidiana. Voi sapete che ci sono oggi due punti -quello iniziale e quello terminale- dell’esistenza. Come nascere e come morire sono, in Italia in particolare, oggetto di una discussione molto intensa e in qualche caso molto violenta, almeno stando agli argomenti, non all’uso di mezzi fisici, che riguardano il nascere e il morire. La normativa sulla procreazione assistita è una legge violentemente ideologica, ispirata a un fondamentalismo religioso che è quello della Chiesa cattolica, delle gerarchie vaticane. Vorrei dire di più: anche se poi è stata pezzo per pezzo demolita dalla Corte costituzionale, dai tribunali e dalla Carta europea dei diritti dell’uomo, in ragione del suo essere una legge impositiva e limitativa di diritti, essa ha rappresentato comunque un danno. Quindi, lì si è consumato e non ancora risolto un conflitto generato da una parte politica, che aveva la maggio- ranza parlamentare e che ha voluto imporre un punto di vista che veniva ispirato da particolari convinzioni religiose. Basterebbe ricordare la vicenda di Eluana Englaro, la drammaticità della discussione intorno al morire con dignità. Poi, mal- grado qualche forzatura, si è arrivati alla conclusione della vicenda drammatica di questa ragazza.

In questo momento rimane questo problema in Italia: la legge sulla procreazione assistita, fatta a pezzi da istanze italiane e internazionali. Essa dovrebbe essere riscritta, e i termini di tale riscrittura sarebbero assolutamente lineari perché sono stati indicati. Così come non si riesce a produrre una normativa sul testamento biologico, le cosiddette: dichiarazioni anticipate sul fine vita. Allo stesso modo, e per la stessa ragione, non si riesce a fare, altresì, una disciplina sulle unioni di fatto: sia tra persone dello stesso sesso, sia tra persone di sesso diverso; malgrado la Corte costituzionale e la Corte di cassazione abbiano detto che queste unioni   di fatto sono «formazioni sociali» secondo l’articolo 2 della Costituzione. Quindi, coloro che fanno parte di una formazione sociale devono vedere riconosciuto il loro diritto. Infatti, la Corte costituzionale e la Corte di cassazione hanno detto che anche le persone dello stesso sesso che hanno un’unione di fatto, hanno il diritto fondamentale di vedere riconosciuta la loro unione.

Ricordo questi casi perché la politica prende in considerazione un valore normativo della religione e quindi, se questo è normativamente individuato dalla conferenza episcopale, non osa discostarsene. Poi le argomentazioni possono essere variegate, ma la sostanza è in realtà questa. Solo che, di fronte a questi temi, il valore normativo della stessa religione cattolica è messo in discussione dal fatto che, mentre la conferenza episcopale italiana ha fatto muro, addirittura con un intervento molto discutibile, invitando all’astensione nel referendum sulla legge (40/2004) sulla procreazione assistita e ha avuto interventi molto duri sulla vicenda Englaro, l’omologa conferenza episcopale tedesca ha invece contribuito alla legge tedesca sul testamento biologico con un testo che, se l’avessi presentato io, poi si sarebbe detto: ecco questi inguaribili laici che vogliono aprire al relativismo nelle scelte individuali. La cosa importante è fino a che punto il fattore religioso diventa determinante e non si determina un intreccio perverso tra politica e religione con un uso reciproco di rafforzamento del potere. Non vorrei fare dei riferimenti troppo facili sulle convinzioni, sulla profonda religiosità di alcune persone che hanno sostenuto queste leggi, ma se si fa questa operazione per mantenere un consenso, e nello stesso tempo si cerca di usare normativamente la religione per insediare in modo più profondo un potere che diventa temporale all’interno della società, c’è qualcosa che non funziona.

Sulla separazione dei poteri

Pur essendo convintamente laico, io non sono dell’idea che ci debba essere una separazione radicale tra la sfera del politico e la sfera del religioso. Soprattutto, ma non solo, in Italia ci sono forti tradizioni religiose profondamente radicate nella cultura al di là della convinzione religiosa. Io posso essere non credente, ma non posso assolutamente ritenere che si possa capire la storia di questo paese, guardare un edificio, entrare in un museo e capire una serie di raffigurazioni se non ho una sufficiente cultura religiosa e quindi, in questo senso, c’è una ragione- vole attesa di ascolto per ciò che viene da una cultura religiosa. In un regime di pluralismo, non possiamo negare che il peso della tradizione culturale cattolica in Italia sia più forte di quella delle altre religioni o di più recente insediamento, non possiamo neanche negare il dato quantitativo, nel dibattito pubblico si può rivendicare il proprio punto di vista, la propria origine e la propria convinzione religiosa, ma non ritengo che questo dia a quella opinione un valore aggiunto superiore a quello di chiunque altro. Per esempio, il tema della famiglia è in misura notevole influenzato dalle convinzioni religiose. Questo ci rinvia, come dicevo poc’anzi, al mancato riconoscimento delle unioni di fatto che è fortemente legato e condizionato dall’affermazione per la quale si cerca anche un riferimento costituzionale nell’articolo 29, il che mi sembra forzato ma non è qui il caso di discuterne. Ora, se guardiamo la Carta dei diritti fondamentali, l’articolo 9 dice: «Il diritto di sposarsi e il diritto di costituire una famiglia sono garantiti secondo le leggi nazionali che ne disciplinano l’esercizio». Perché lo leggo? Perché, se fate il confronto con l’articolo 12 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo, voi trovate scritto: «A partire dall’età minima per contrarre matrimonio, l’uomo e la donna hanno il diritto di sposarsi e di fondare una famiglia secondo le leggi nazionali che regolano l’esercizio di tale diritto». Ora, le espressioni non sono affatto simili. Primo, è caduto il riferimento alla diversità di sesso, perché la Carta dei diritti fondamentali non fa questo riferimento e, in più, quello che nella Convenzione sembrava un diritto unico: sposarsi e costituire una famiglia, nella Carta dei diritti sono due diritti distinti: il diritto di sposarsi e il diritto di costituire una famiglia sono garantiti, si tratta di due diritti distinti. Io ho fatto parte della commissione che ha scritto questa Carta e posso dire che l’osservatore dello Stato vaticano – naturalmente non partecipava formalmente però era un giovane molto intelligente- non ha fatto una grande battaglia sulle radici cristiane, ma dietro le quinte ha lavorato molto perché non ci fosse questo articolo, perché esso legittimava una organizzazione familiare anzitutto diversificata e non gerarchica, perché anche in una sede di un paese dove le unioni di fatto sono state riconosciute, c’è una gerarchia tra il matrimonio e le altre forme di costituzione di una convivenza. Ci troviamo di fronte a un altro passaggio che può essere fortemente influenzato dalla religione. Nascere, vivere, stabilire rapporti, quindi non solo i momenti iniziali e terminali dell’esistenza ma il governo della vita nella relazione con l’altro, hanno attinenza anche con la religione.

In Italia arrivano persone con una cultura poligamica, problema che si è posto in altri paesi e che si pone anche in Italia. Per esempio, il diritto al ricongiungimento consente di far venire soltanto uno dei coniugi o si estende anche agli altri? Far venire in Italia il primo coniuge è una cosa, ma questo non significa che il coniuge bis o tris poi possa essere fonte di ulteriori diritti. C’è poi la questione degli assegni familiari o le detrazioni nel momento in cui si fanno delle dichiarazioni dei redditi congiunti. Quindi, vedete come queste cose si intersechino fortemente nella vita quotidiana. Ma qual è il rapporto di queste cose con la libertà religiosa? La libertà religiosa è implicata profondamente perché, se io voglio accedere o ve- dermi ricono- sciuto il diritto, per esempio, all’accesso alla procreazione assistita, a morire con dignità, eccetera, debbo poter trovare delle strade istituzionali che non implichino un sacrificio del mio punto di vista. Ecco dove c’è, nelle apparenze indirettamente, ma nella sostanza in modo molto diretto, un riconoscimento della libertà religiosa. La libertà religiosa non è soltanto la facoltà di esercitare il culto, cambiare religione e non essere discriminato.

Laicità francese

Tutta questa serie di principi vanno poi concretizzati nella vita quotidiana perché la persona conduce un’esistenza pratica che porta a confrontarsi con l’alimentazione, l’abbigliamento, ecc. Si tratta di questioni apertissime, come usare o meno il velo – questo è un problema delle donne musulmane – nelle varie gradazioni: dal foulard all’hijab. Il tema può essere affrontato in modo diverso. Per esempio, la legislazione francese è molto radicale a riguardo perché lì c’è un’integrazione attraverso un’idea tradizionale di cittadinanza, ma in altri paesi non è così. In Italia il problema è stato visto dal punto di vista dell’ordine pubblico. C’è stata una norma – che però era stata scritta al tempo del terrorismo – che invitava a non andare in giro in modo da travisare l’identità. L’espressione usata: «travisare» in questo caso, si riferisce all’impossibilità di vedere il viso della persona. In questo caso, la linea adottata, ormai in maniera maggioritaria, è quella di riconoscere il diritto legato alle convinzioni religiose di scegliere il proprio abbigliamento. Naturalmente, le polemiche le conoscete. In realtà, soprattutto in Francia, quando ci si è battuti contro i divieti – il divieto del foulard islamico – si è usato un argomento che veniva dallo stesso mondo islamico. È stata utilizzata un’espressione molto efficace: perché volete conservare un brandello di tenebre, cioè un modo attraverso il quale un potere autoritario gerarchico e maschile lasciava nell’oscurità le donne che non potevano far vedere il proprio viso? Nonostante il velo non possa essere ricondotto rigorosamente a una prescrizione religiosa, tuttavia c’è un problema che riguarda chi ritiene che la propria religione debba essere portata in pubblico anche attraverso forme di abbigliamento. In Francia c’è un problema: il modo in cui la legge è stata formulata è tale per cui, per esempio, se un dipendente pubblico vuole circolare con una grande stella di David, o con un grande crocifisso, potrebbe essere contrastato allo stesso modo della ragazza che si copre i capelli   e parte del viso con un foulard islamico, perché si richiede la non esibizione dei simboli religiosi. Ora io, su questo punto, francamente ritengo che il discorso sia tale da mettere in discussione la libertà religiosa. Poi c’è una discussione sociale aperta, ci possono essere bilanciamenti di interessi. Io non posso fare, ovviamente, una rassegna che sarebbe molto lunga, ma ci sono situazioni determinate che possono richiedere bilanciamenti e in questo senso riduzione anche delle scelte legate alla convinzione religiosa.

Libertà religiosa e ritualità sociali

Il caso limite è quello delle cosiddette mutilazioni rituali, come l’escissione, l’infibulazione, di cui è contestato fortemente il radicamento religioso. Si dice che soprattutto si tratti di un radicamento culturale. Però, anche se qui sono un po’ più estremo nella mia conclusione, anche io credo che sia giusta la valutazione fatta dagli antropologi. Questo non è il portato di un dettato religioso, sono ritualità sociali. Però attenzione, perché ci sono delle ritualità molto forti come quelle religiose che hanno a loro volta un riconoscimento come il ramadan. Il ramadan certamente è un rito religioso che ha trovato riconoscimento anche nel nostro sistema. Per esempio, la possibilità di ottenere il cibo soltanto dopo il calar del sole, non negli orari stabiliti per la refezione. Con questa varietà di argomentazioni sto cercando di fare un percorso, forse un po’ farraginoso, per arrivare a mostrare con sufficiente evidenza il carattere intrinseco delle convinzioni religiose. Potremmo noi accettare come diritto quello di una mutilazione sessuale che incide sui diritti fondamentali della donna? che incide sulla identità sessuale della persona? Ecco questo è un punto estremo e che implica l’intervento esterno sul corpo della persona. Una cosa è che io scelga di mettere il foulard, anche se ci sono fortissimi condizionamenti, come il fatto che mio padre, i miei fratelli, la mia comunità mi rifiutano; altra cosa è vedere un intervento violento sul corpo di una persona, che ha poi effetti sulla vita della persona medesima. Cioè, qual è nei nostri ordinamenti il limite rappresentato da diritti fondamentali della persona che non possono essere violati, invocando genericamente o generalmente la libertà religiosa? Questo è un problema aperto, ma io ritengo che, quando è implicato il corpo e le sue modificazioni, questo non può essere sottratto alla libera scelta della persona. Questo credo che sia un punto importante e, quindi, la pretesa legata all’appartenenza di una comunità e anche all’esistenza all’interno della comunità, di un’idea religiosa, non soltanto sociale, non potrebbe ottenere riconoscimento. Ricordo che, quando ero parlamentare e impiegammo del denaro in modo un po’ più corretto di quanto non abbiamo visto nelle cronache degli ultimi anni, nel gruppo parlamentare c’era una studiosa, Laura Balbo, con la quale facemmo una piccola ricerca sulle comunità d’immigrati a Roma, proprio rispetto a questo problema. Le risposte date dalle madri fu che in ogni caso avrebbero scelto la via dell’escissione e dell’infibulazione. E portarono un argomento sottile, insidioso e difficile. Una parte di esse disse che, se fossero rimaste nel loro paese, forse avrebbero risparmiato la mutilazione ma, vivendo ormai fuori dal loro paese, all’interno di una comunità chiusa, se queste ragazze non fossero sottoposte a questo trattamento, non troverebbero marito nella loro comunità. Vedete quanto è importante l’integrazione, il non costringere nelle comunità chiuse i portatori di cultura diversa perché all’interno della cultura, nei ghetti culturali, c’è l’impossibilità di esercitare liberamente le proprie scelte.

Queste materie, come la religione, sono un fenomeno così complesso e variegato, che segue la vita e non si adatta alla logica binaria di un calcolatore. Ci sono dei passaggi, delle zone grigie, all’interno delle quali può giocare in alcuni momenti una maggiore opportunità affidata alla persona, o, nel peggiore dei casi, un bilanciamento d’interessi, soprattutto quando sono implicati altri soggetti.

Ruolo dei poteri pubblici

Il problema è quello del ruolo dei poteri pubblici, perché il rispetto della religione non esclude il potere di creare un contesto adeguato affinché, in primo luogo, la libertà religiosa possa essere esercitata con pienezza. In secondo luogo, una libertà religiosa non si limita alle definizioni tradizionali: culto, cambiamento di religione, ma esige una serie di concretizzazioni nelle direzioni che ho indicato. Inoltre, si possono creare situazioni di bilanciamento d’interessi di cui i poteri pubblici si devono fare carico, seguendo quelli che sono i principi di riferimento come il pluralismo, l’eguaglianza, la libertà, la laicità. Non c’è un contrasto, io non sono tra quelli che hanno alimentato una sorta di guerre di religioni. La città, lo dice la Corte costituzionale, è un aspetto della forma di Stato all’interno del quale ci sono delle norme che riguardano la religione. Quindi, dobbiamo dare questo tipo di lettura e vedere dov’è possibile il bilanciamento d’interessi e dove invece deve essere dato il massimo risalto, il massimo riconoscimento all’autonomia individuale. Perché l’autonomia individuale è quella attraverso la quale si costruisce liberamente la personalità. È quello che ci dice la costituzione italiana quando appunto, nell’articolo 2, la Repubblica riconosce e garantisce i diritti inviolabili dell’uomo sia come singolo, sia nelle formazioni sociali ove si svolge la sua personalità. Quindi, c’è un problema nello svolgimento della personalità e che, evidentemente, è legato al riconoscimento della dimensione religiosa.

Ruolo dell’istruzione

Nella mia vita ho fatto di tutto, ma il mio mestiere è stato sempre quello dell’insegnante. Sono entrato e uscito dalla scuola, continuo a esserci anche nella forma, non solo perché, malgrado la mia veneranda età, continuo a lavorare nell’università, ma perché ritengo che sia un dovere. Vado moltissimo nelle scuole. Mio padre era un insegnante in Calabria, ha finito facendo il preside a Roma. Quindi, ho respirato aria di scuola fin da quando ero bambino. La scuola è la prima comunità sociale, dopo la famiglia, con la quale si incontrano bambini e bambine, è il primo grande spazio pubblico di confronto, poi si crea la personalità, si conoscono gli altri e si superano i rischi del conflitto.

Le nostre società sono ormai, come si usa dire, anche con una certa retorica, multietniche, multirazziali, multiculturali. Se noi separiamo fin dall’inizio le perso- ne, prepariamo una società dei conflitti, delle incomprensioni, dell’intolleranza reciproca e quindi creiamo le condizioni perché una delle premesse della libertà religiosa, il pluralismo, venga negata. Ciò accade perché, nel momento in cui io lego fortemente la mia identità a una religione che considero escludente le altre, mi identifico con essa, frequento una determinata scuola, naturalmente sono portato a ritenere che l’altro che è andato in una scuola diversa è diverso da me. Mentre, se ho avuto la possibilità di condividere, vedere le abitudini alimentari altrui, vedere la pelle diversa, conoscere delle convinzioni religiose diverse, cre- scerò con un’apertura mentale più ampia. La libertà religiosa viene salvaguardata anche attraverso l’apertura degli spazi pubblici, di confronto, all’interno dei quali la mia possibilità di scelta cresce, magari a contatto di una persona che pratica un’altra religione, ha un altro credo. Può darsi che io cambi di opinione, quel diritto di mutare che sta scritto nelle dichiarazioni europee, io lo posso esercitare concretamente, mentre quel diritto viene negato in radice se vengo identificato in modo autoritario e identitario, l’identità può essere uno strumento terribile, perché diventa uno strumento aggressivo nei confronti degli altri.

Quando si scrisse il cosiddetto «concordato Craxi», due cattolici convinti, ma di grande apertura culturale e politica che erano Leopoldo Elia e Pietro Scoppola, dissero: dobbiamo introdurre la storia delle religioni! Sentivano l’esigenza di istituire un insegnamento che mettesse a confronto e che valutasse criticamente qualsiasi esperienza religiosa. Criticamente non vuol dire criticarla, ma fornire gli strumenti perché ciascuna religione possa essere valutata per quello che è.

La scuola è il luogo dove si costruisce il pluralismo. Se la scuola impedisce che si formi pluralismo, questa società avrà inevitabilmente difficoltà, conflitti e incomprensioni continue, e darà sempre una dimensione unilaterale dei fenomeni. In questo senso, davvero, io credo che la riflessione sulla religione più che su altre cose, può aiutare a comprendere questo aspetto.

Libertà di coscienza

La libertà di coscienza è un punto fondamentale, essa è sempre stata ed è una delle grandi rivendicazioni del cristianesimo che porta con sé anche quello dell’incoercibilità della coscienza.

Si dice, per esempio, che uno Stato all’interno del quale ci sia il riconoscimento della libertà religiosa e quindi dei principi di pluralismo, eguaglianza e libertà,   non debba consentire nessuna forma di indottrinamento. Quindi, dovrebbe esserci di fronte a ciò una sorta di neutralità attiva dello Stato, non disinteresse, attenzione, ma neutralità attiva nel senso di creare le condizioni perché poi la libertà di coscienza possa essere effettivamente praticata. Noi oggi non abbiamo fenomeni di imposizione, anche se in Francia la carta della laicità, l’insegnamento della laicità, ha fatto riemergere esattamente questo tipo di polemiche. Lo ripeto, faccio un elenco di problemi per mostrare quanto è ampio il campo all’interno del quale noi lavoriamo quando dobbiamo ragionare di libertà religiosa. Ma, indipendentemente da questi fenomeni, ci può essere una forma di imposizione indiretta di un punto di vista religioso, quando per esempio scrivo una legge fortemente o in modo decisivo connotato da una ispirazione religiosa. Allora in questi casi si dice che il luogo della decisione è quello, più democratico di tutti, della rappresentanza parlamentare, e dovete accettare le decisioni perché poi ai parlamentari in questo caso noi riconosciamo libertà di coscienza. Questa è una formula che io ritengo di grande ambiguità. Ho fatto per 15 anni il parlamentare e non ho mai ritenuto che la mia coscienza dovesse essere garantita da qualcun altro che mi dicesse: quel giorno tu puoi esercitare la tua libertà di coscienza, perché in tutti gli altri voti io la libertà di coscienza non l’avevo riconosciuta. A parte questo, nelle materie che riguardano la vita, quelle di cui stiamo parlando, la coscienza implicata non è la coscienza del parlamentare, ma è la coscienza di ciascuna delle persone, dei cittadini, che dovranno poi obbedire a quella nuova norma. Quindi, nel momento in cui io approvo quella norma, non devo tutelare la mia libertà di coscienza, devo tutelare la libertà di coscienza di ciascuno. Io faccio, di proposito evidentemente, delle citazioni di cattolici convinti e che hanno professato la religione. Torno di nuovo a Leopoldo Elia che diceva una cosa molto semplice, ma che sembra sparita dall’orizzonte culturale italiano, non dall’orizzonte culturale di altri paesi. Di fronte a temi che generano conflitto, per esempio a quelli legati ai cosiddetti valori non negoziabili, quale deve essere l’atteggiamento del legislatore democratico? Diceva Leopoldo Elia che in queste materie si deve intervenire solo con leggi permissive, che non è parola che oggi assumerebbe un significato, ma forse qualcosa sta cambiando. Io non sono un uomo dagli entusiasmi facili, certo mi piace sentire quello che dice o scrive o telefona l’attuale pontefice, anche se sappiamo che la Chiesa è un corpo complesso. La permissività negli ultimi anni è diventata un’arma del diavolo. Che cosa voleva dire Leopoldo Elia? Che in queste materie si intervenga rimuovendo ostacoli, ampliando le possibilità di scelta delle persone, senza obbligare nessuno. Allora l’intervento del legislatore è legittimo. I casi che lui faceva erano molto spinosi per un cattolico: il divorzio e l’aborto. Nessuno è obbligato a interrompere la gravidanza. In altre materie nelle quali invece “io” voglio condizionare in positivo il comportamento o impedire determinati comportamenti, il legislatore dovrebbe astenersi.

Quindi, queste sono le strade che mi pare siano rispettose del fatto che si possono avere nei confronti dell’istituzione matrimoniale punti di vista diversi, e ciascuno deve poter esercitare la propria libertà religiosa: perché voi sapete benissimo che ci sono religioni per le quali, per esempio, il divorzio è ammesso; ci sono religioni per le quali l’interruzione della gravidanza è ammessa. E allora, se, in veste di legislatore, introduco una legge costrittiva o limitativa di diritti, come si usa dire più frequentemente «proibizionista», in realtà sto intervenendo anche sulla libertà religiosa di una serie di soggetti; nel momento in cui faccio una legge di apertura, al contrario non condiziono nessuno. Come credente posso essere colpito da tutto ciò e, se volete, ferito. Voi sapete che Baldovino del Belgio si sospese nel momento in cui dovette firmare la legge sull’interruzione sulla gravidanza e invece al Presidente della Repubblica italiana fu rimproverato proprio di avere firmato la legge sull’aborto. Io credo che l’atteggiamento corretto sia stato quello dei Presidente della Repubblica italiana, non di Baldovino, perché, quando si ricopre un ruolo istituzionale e c’è una manifestazione legittima, io non posso far valere le mie ragioni di coscienza.

E vengo alla questione dell’obiezione di coscienza. Nessuno penserebbe all’obiezione di coscienza del magistrato, perché egli deve obbedire alla legge. Può naturalmente fare le cose che sono corrette, sollevare non la sua obiezione di coscienza ma eventuale incostituzionalità della norma, oppure battersi in sede diversa da quella del suo esercizio di funzione giurisdizionale perché quella norma venga modificata. Questo è assolutamente legittimo. Nella storia di tutti i paesi ci son stati anche magistrati che hanno addirittura capeggiato un movimento per la modifica della legge; legge che però hanno applicato fino al momento in cui essa era in vigore. E questo è un primo problema che non è stato del tutto assente dalla nostra discussione pubblica.

Per quanto riguarda l’interruzione della gravidanza da parte di minori di anni 16, ci sono stati atteggiamenti ideologici. Io trovo, per esempio, che la nostra disciplina sull’interruzione della gravidanza abbia, in via di principio, trovato un equilibrio molto corretto per quanto riguarda il rapporto tra obiezione di coscienza e funzionamento della legge. C’è questo meccanismo: diritto all’obiezione di coscienza però obbligo per le strutture pubbliche, che sono le uniche all’interno delle quali è legittima l’interruzione della gravidanza, di provvedere in ogni caso al rispetto del diritto della donna di interrompere la gravidanza. Che cosa è accaduto? A parte un primo tentativo di estendere l’obiezione di coscienza a tutti coloro i quali si trovavano nella struttura, per cui addirittura si riteneva che i reparti nei quali si effettuava l’interruzione di gravidanza, ci poteva essere l’obiezione di coscienza degli infermieri, dei portantini e perfino dei cuochi e delle cuoche. Un medico può dire: io non ti prescrivo, per esempio, la pillola del giorno dopo. Per intenderci, questo è nell’esercizio del medico libero professionista, ma poniamo che io mi trovi di fronte a una serie di rifiuti, e poi anche di fronte all’obiezione di coscienza del farmacista. Ciò è certamente qualcosa di inammissibile perché, tra l’altro, le farmacie non operano in regime di libera concorrenza. Tra l’altro, nei piccoli centri, non sono disponibili sempre farmacie aperte in qualunque giorno. Che cosa si deve fare? chiedere a qualcuno, trovare la macchina, andare in un altro posto, farsi accompagnare non si sa dove, se nel paese la farmacia è chiusa? Allora il punto dell’obiezione di coscienza deve essere sempre misurato se c’è un altro implicato, questo è uno dei tanti discrimini. L’obiezione di coscienza al servizio militare è stata sempre considerata in modo diverso perché era una decisione che rientrava nella sfera della persona, poteva incidere sull’articolo che dice che c’è il sacro dovere di servire la patria. In un Paese che ha bisogno di un esercito di leve, per esempio, la decisione di obiettare ricade nell’ambito personale e finché l’obiezione di coscienza non è stata riconosciuta, chi faceva questa scelta ne subiva personalmente le conseguenze, perché la persona veniva arrestata. Quindi, quella è una manifestazione forte di messa in discussione di una norma di obiezione di coscienza che può essere anche religiosa e quindi è un modo per esercitare la libertà religiosa, pagandone un prezzo. Ci sono lotte per i diritti che possono comportare un prezzo. Ma quando la mia obiezione di coscienza implica la negazione del diritto dell’altro, dobbiamo considerarne l’estrema problematicità. Non sto negando la rilevanza della coscienza e quindi della libertà religiosa, però faccio due obiezioni, perché di questo diritto all’obiezione di coscienza si è profondamente abusato. Ci sono aree d’Italia dove il numero degli obiettori, non dico che si avvicina al 100% ma a percentuali tali da determinare de facto l’impossibilità, in molti casi, di esercitare i diritti, perché la lunghezza delle liste di attesa rischia di far slittare l’intervento sulla donna oltre il termine legale per poter interrompere legittimamente la gravidanza. Questo è un problema che non può essere ignorato, e voi sapete che ci sono strutture pubbliche che devono ricorrere a persone pagate soltanto per fare interruzioni di gravidanza. Quindi, c’è un costo aggiuntivo determinato dall’obiezione di coscienza che però è necessitato dal fatto che esiste una norma secondo cui il diritto della donna deve essere rispettato. E tuttavia c’è oggi una domanda da fare. Noi sappiamo che le motivazioni non sempre sono ispirate a ragioni vere di coscienza, ma anche di convenienza professionale. Io ho parlato con moltissimi ginecologi per capire questa cosa, essi dicono: Non è un tipo di lavoro gratificante, è un lavoro terribile di routine. Professionalmente, quando faccio delle operazioni chirurgiche, imparo ogni volta, anche dall’operazione più banale. Ma se non imparo nulla, è frustrante da tutti i punti di vista e quindi, se posso, obietto. Ora, a questo punto, il problema dovrebbe essere affrontato. Io ho una risposta estrema ed è la seguente: Se voglio andare a fare il ginecologo nelle strutture pubbliche, come se vado a fare il magistrato, devo sapere e devo rispettare una serie di norme, tra le quali c’è anche quella che prevede l’interruzione della gravidanza. Questo vi potrà sembrare eccessivo, è un limite alla libertà religiosa ma, come ho detto prima, c’è un problema che si apre tutte le volte in cui l’esercizio individuale della libertà religiosa ti mette in condizione tale da poter pregiudicare l’esercizio della libertà altrui.

Considerazione finale

Nel mio dire ho effettuato attraversamenti continui tra sfera privata e sfera pubblica, decisioni individuali e costruzioni del contesto. A mio parere, lo Stato non deve dare la sua linea, ma deve consentire l’esercizio delle libertà in questa materia come in altre, creando le condizioni propizie e bilanciando gli interessi quando è necessario. Io non sono dell’opinione che debba esserci una separazione assoluta tra religione e politica. La religione non è una cosa astratta, ma coloro i quali professano la religione hanno il diritto di fare entrare nel dibattito politico le argomentazioni legate al loro credo. Questo non può essere negato. Ma non si può giustificare la propria posizione dicendo: sono cattolico! sono musulmano! Affermarlo è assolutamente legittimo, ma il punto è che questo non può confliggere con un dato della democrazia che è la libertà della discussione. Quando entro nella discussione pubblica, non ho un valore aggiunto in più rispetto ad altri. Non posso affermare che i miei argomenti non sono negoziabili. Non posso dire è così perché è così, perché lo dice la mia religione. Io devo ammettere che questo mio punto di vista che ritengo irrinunciabile dal punto di vista individuale debba confrontarsi col punto di vista altrui. Vediamo se troviamo un punto di convergenza, valutando ciò che è avvenuto in Francia, in Spagna, in Germania, per esempio, circa il testamento biologico. Quando ciò appare impossibile, ecco che ritorna l’argomentazione di Elia, vedere fino a che punto io devo rispettare la coscienza delle persone e quindi la loro libertà all’interno della quale la libertà religiosa è inclusa a seconda del punto di vista. Il legislatore deve essere molto prudente quando entra in taluni ambiti. Non c’è un articolo specifico, ma ne esiste uno che ci indica la strada. Quando si parla di salute, le ultime parole dell’articolo della costituzione dicono: «La salute è un diritto fondamentale, la legge non può in nessun caso violare i limiti imposti dal rispetto della persona umana». C’è un ambito precluso al legislatore quindi, e questo è un punto molto importante da ribadire.

La pienezza dell’essere, anche giuridica, mi legittima a non ottenere assolutamente invasioni legislative. È chiaro che poi questo è un limite al potere del Parlamento, ma è un limite che esprime il rispetto della persona. Questo rispetto implica anche la libertà religiosa, che però, ripeto, deve essere uno strumento non impositivo nei confronti di altri ma fortissimo. Io, in base alle mie convinzioni, voglio rifiutare alcune cose, per esempio il divorzio. Nonostante il consenso quasi unanime sul divorzio, voglio mantenere il mio matrimonio come se fosse indissolubile.

Ho cercato di fare questo lungo discorso, dicendo che la libertà religiosa è un principio che deve essere salvaguardato, è uno straordinario strumento di controllo sullo stato delle libertà individuali e collettive, perciò non può essere messa da parte; perché se noi riteniamo che sia indifferente per la vita pubblica e per la democrazia, ne avremo sicuramente un irreparabile impoverimento.

 

STEFANO RODOTÀ Professore emerito di Diritto civile dell’Università di Roma La Sapienza. Lectio magistralis, tenuta nel 2013 presso la sala della Protomoteca del comune di Roma. Testo non rivisto dall’autore. Articolo edito in Coscienza e Libertà 47/2013.

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